mercoledì 10 febbraio 2016

“Monologo della Lucertola” da “Non si sa come” di L. Pirandello




A un tratto, tutto assorto come ero, chi sa che cosa mi passò per le carni, stolzai, e istintivamente alzai la mano a un orecchio. Sento stridere una risatina da sotto la muriccia. Un ragazzo della campagna s'era nascosto là sotto, dalla parte della campagna. Aveva strappato e brucato anche lui un lungo filo d'avena, gli aveva fatto un cappio in cima e, zitto zitto, con esso alzando il braccio aveva tentato d'accappiarmi l'orecchio.


 Appena mi voltai risentito, subito col dito m'accennò di tacere e tese il filo d'avena lungo la muriccia, dove tra una pietra e l'altra spuntava il musetto d'una lucertola, a cui con quel cappio egli dava la caccia. Mi voltai a guardare, ansioso. La bestiola, senz'accorgersene, aveva infilato da sé il capo nel cappio lì appostato; ma ancora era poco, bisognava aspettare che lo sporgesse un po' di più, e poteva darsi che invece lo ritraesse, se la mano che reggeva il filo d'avena tremolava e le faceva avvertire l'insidia. Forse era sul punto d'assaettarsi per evadere da quel rifugio divenuto una prigione. Attenti a dare a tempo la stratta; questione d'un attimo. Eccola! E la lucertola guizzò come un pesciolino in cima a quel filo d'avena. Saltai giù irresistibilmente dalla muriccia; ma quello, forse temendo che volessi impadronirmi della bestiola, roteò più volte in aria il braccio e poi la sbatté con ferocia su un lastrone che si trovava lì tra gli sterpi. - No! - gridai; troppo tardi: la lucertola giaceva immobile su quel lastrone col bianco della pancia al lume della luna. Ne provai un'ira grandissima. Avevo voluto anch'io che quella povera bestiola fosse presa, preso anch'io per un momento da quell'istinto della caccia che è in tutti agguattato; ma ucciderla così, senza prima vederla da vicino, negli occhietti vivi acuti fino allo spasimo, nel palpito dei fianchi, nel fremito di tutto il verde corpicciuolo; no, era stato stupido e vile. E avventai con tutta la forza un pugno in petto a quel ragazzo, mandandolo a ruzzolare in terra, tanto più lontano quanto più lui, così tutto squilibrato indietro, tentò di riprendersi per non cadere. Caduto, si rizzò inferocito, ghermì un toffo di terra e me lo scagliò in faccia; ne restai accecato e con quel senso d'umido in bocca che più mi seppe di sfregio e m'imbestialì. Presi anch'io di quella terra e la scagliai. Il duello si fece subito accanito. Ma lui era più svelto e più bravo, e mi veniva sempre più addosso, avanzando, con quei toffi di terra che, se non ferivano, percotevano sordi e duri e, sgretolandosi, erano come una grandinata da per tutto in petto sulla faccia tra i capelli agli orecchi e fin dentro le scarpe; soffocato, non sapendo più come ripararmi e difendermi, furibondo mi voltai, spiccai un salto e col braccio alzato strappai una pietra dalla muriccia. Qualcuno di là si ritrasse, sarà stato Fox. Scagliata la pietra, d'un tratto - io non so come - da che tutto prima mi sbalzava davanti agli occhi, quelle masse d'alberi, in cielo la luna come uno striscio di luce, ora più nulla, non si moveva più nulla, il tempo stesso e tutte le cose pareva si fossero fermati in uno stupore attonito intorno a quel ragazzo traboccato a terra. Ancora ansante, col cuore in gola, mirai esterrefatto, addossato alla muriccia, quell'incredibile immobilità silenziosa della campagna sotto la luna, quel ragazzo che vi giaceva con la faccia mezzo nascosta nella terra, e sentii crescere in me, formidabile, il senso d'una solitudine eterna, da cui dovevo subito fuggire. Non ero stato io; io non l'avevo voluto; non ne sapevo nulla. E proprio come se m'appressassi per curiosità, mossi un passo e poi un altro, e mi chinai a guardare. Il ragazzo aveva la testa sfragellata, la bocca nel sangue colato a terra nero e una gamba un po' scoperta -

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