Da trentasei anni, per cinque giorni la settimana, prendo il treno delle otto e dodici per la City. Non è mai eccessivamente affollato e mi porta dritto alla stazione di Cannon Street, a solo undici minuti e mezzo, a piedi, dal portone del mio ufficio in Austin Friars.
M'è sempre piaciuta questa faccenda del pendolare: mi sono sempre goduto ogni tappa di quel piccolo viaggio. Esso comporta un senso di regolarità che è decisamente piacevole e rasserenante per un abitudinario come me; in più, funge da scivolo, per così dire, lungo il quale, dolcemente ma decisamente, mi lascio cadere nelle acque della routine del lavoro quotidiano.
La nostra è una stazioncina molto piccola nella quale si radunano solo diciannove o venti persone per prendere il treno delle otto e dodici. Siamo un gruppo che difficilmente muta, e se per caso sulla banchina compare una faccia nuova, ciò che può anche accadere di tanto in tanto, essa puntualmente provoca un certo moto di protesta e ripudio, come un uccello nuovo in una gabbia di canarini.
Di solito, però, quando arrivo la mattina, con i miei soliti quattro minuti d'anticipo, sono già tutte lì, quelle brave, solide e puntuali persone, ognuna al suo posto giusto, con l'ombrello e il cappello e la faccia e il giornale sotto al braccio giusti, immutate e immutabili negli anni come il mobilio del mio soggiorno. Proprio non mi dispiace.
Né mi dispiace il mio posto nell'angolo accanto al finestrino e la lettura del Times accompagnata e ritmata dal rumore e dal moto del treno. Questa parte del viaggio dura trentadue minuti e mi distende sia la mente sia l'ipersensibile corpo come un buon lungo massaggio. Credetemi, non c'è niente come una buona routine per mantenere la pace della mente. Avrò fatto ormai un diecimila volte questo mio viaggio mattutino, ma me lo godo sempre più ogni giorno che passa. Sono inoltre diventato (fatto irrilevante, d'accordo, e tuttavia interessante) una specie di orologio. Sono in grado di dire immediatamente, per esempio, se siamo in ritardo di due o tre o quattro minuti, e non devo mai alzare gli occhi dal giornale per sapere a quale stazione ci siamo fermati.
La passeggiata dalla fine di Cannon Street fino al mio ufficio, poi, non è né troppo lunga né troppo corta: una salutare camminatina lungo strade affollate da colleghi pendolari diretti tutti al loro posto di lavoro con la stessa ordinata puntualità. Mi dà proprio un senso di sicurezza muovermi tra queste persone dignitose e affidabili che si tengono stretto il loro lavoro e non se ne vanno invece in giro per il mondo. Le loro vite, come la mia, sono piacevolmente regolate dalla lancetta dei minuti di un orologio preciso, e molto spesso le nostre strade s'incrociano ogni giorno nello stesso istante e nello stesso punto.
Per esempio, quando svolto in St Swithin's Lane invariabilmente m'imbatto in una simpatica signora anziana che porta occhiali a stringinaso d'argento e ha una valigetta nera in mano: una contabile d'alto livello, direi, o magari una dirigente in un'industria tessile. Quando attraverso Threadneedle Street al semaforo, nove volte su dieci incrocio un signore che ogni giorno porta un fiore diverso all'occhiello. In pantaloni neri e ghette grigie, è chiaramente un persona puntuale quanto meticolosa, probabilmente un banchiere se non un procuratore legale come me. E parecchie volte, negli ultimi venticinque anni, nell'incrociarci frettolosamente al centro della strada che stiamo attraversando, i nostri occhi incontrandosi si sono scambiati uno sguardo fuggevole ma di mutua approvazione e rispetto.
Almeno metà delle facce che incontro nel corso di questa piccola passeggiata mi sono ormai familiari. E sono delle belle facce, direi; facce del mio tipo, comunque, del mio tipo di gente: persone integre, diligenti e indaffarate, senza neppure una traccia di quello sguardo acceso e irrequieto che si nota spesso nei cosiddetti tipi dinamici che aspirano a capovolgere il mondo con i loro governi laburisti, le loro assistenze sociali e tutto il resto.
Si può dunque concludere che sono un pendolare soddisfatto in ogni senso della parola. O sarebbe più accurato dire che ero un pendolare soddisfatto? Nello scrivere questa breve nota autobiografica - col proposito di farla circolare tra il personale del mio ufficio perché servisse da esortazione ed esempio - ho cercato semplicemente di tracciare un quadro abbastanza esatto di ciò che provo. Questo però succedeva una settimana fa: da allora è subentrato un fatto abbastanza nuovo e particolare. Per la verità, la cosa è successa, è cominciata a succedere anzi, martedì scorso, la mattina stessa in cui portavo alla City, nella mia tasca, la bozza di questo scritto. E la coincidenza m'è sembrata tale e talmente puntuale che posso solo credere che sia stata opera di Dio. Dio deve aver letto la mia piccola nota autobiografica e dev'essersi detto: «Questo Perkins comincia a compiacersi un po' troppo. È ora di dargli una lezione». Credo proprio che sia andata così.
Come dicevo, è successo martedì, il martedì dopo Pasqua, una tiepida mattina di primavera. Stavo avanzando sulla banchina della nostra stazioncina di campagna con la copia del Times sotto al braccio e la copia de Il pendolare soddisfatto in tasca, quando mi resi immediatamente conto che qualcosa non andava. Avvertii effettivamente quello strano, piccolo moto di protesta, quell'increspatura, che partiva dalla fila dei miei colleghi pendolari. Mi fermai di colpo e mi guardai intorno.
Lo sconosciuto, l'estraneo, stava lì, piazzato proprio al centro della banchina, a gambe divaricate e braccia conserte, con l'aria, non c'era da sbagliare, del padrone del posto, dell'intera contea. Era grande e grosso e anche visto da dietro riusciva, chissà come, a comunicarti una fastidiosa impressione d'arroganza e insieme mellifluità. Decisamente, più che decisamente, non era dei nostri: invece dell'ombrello portava un bastone, le scarpe non erano nere ma marrone, il cappello grigio era ridicolmente calcato di lato e, in un modo o nell'altro, da tutta la sua persona emanava una certa aria di eccessiva ridondanza. Di più non mi presi la briga di notare. Gli passai dritto davanti col viso rivolto al cielo, aggiungendo in tal modo, e davvero spero d'esserci riuscito, un tocco di autentico gelo a un'atmosfera già gelida di per sé.
Arrivò il treno. E, a questo punto, cercate se vi riesce d'immaginare il mio orrore quando l'estraneo mi seguì addirittura nel mio scompartimento! In quindici anni questo nessuno me l'aveva mai fatto. I miei colleghi pendolari sempre rispettano la mia anzianità. E uno dei miei piccoli e particolari piaceri è proprio quello di avere lo scompartimento tutto per me per almeno una, a volte due se non anche tre, stazioni. Invece ecco che questo tipo, questo sconosciuto, s'accomoda nel sedile di fronte e si soffia il naso e sfoglia il Daily Mail e accende una disgustosa pipa.
Abbassai il Times e lanciai di soppiatto un'occhiata al suo viso. Credo che avesse più o meno la mia età - sessantadue o sessantatré - ma aveva una di quelle facce sgradevolmente belle, abbronzate, stagionate, come le si vede oggi nella pubblicità delle camicie: il cacciatore di leoni, il giocatore di polo, lo scalatore dell'Everest, l'esploratore e il velista tutti mescolati insieme. Sopracciglia scure, occhi grigio ferro, denti sani e bianchi ben serrati sul beccuccio della pipa. Personalmente diffido degli uomini belli. Colgono troppo facilmente i piaceri superficiali della vita e girano tra noi con l'aria decisa d'essere essi stessi gli autori del proprio bell'aspetto. Una donna bella, lei sì che non mi dispiace; ma è tutt'altra cosa. In un uomo, invece la bellezza, mi dispiace dirlo, in un modo o nell'altro mi risulta offensiva. È la parola. In ogni modo, ecco che lì, seduto di fronte a me nel mio scompartimento c'era quel tizio, quel bello, e io stavo sbirciandolo da dietro il Times quando di colpo lui alza il capo e i nostri sguardi s'incontrano.
«Le dà fastidio la pipa?» chiese, sollevandola stretta tra le due dita. Non disse altro. E tuttavia il suono di quella voce ebbe un improvviso e straordinario effetto su di me. In verità credo che sobbalzassi. Poi mi raggelai, diciamo, e rimasi lì a fissarlo per almeno un minuto prima di ricompormi e rispondere:
«Questa è una carrozza per fumatori, quindi può fare quello che più le aggrada».
«Chiedevo, così.»
Eccola lì, quella voce stranamente animata, familiare, che spiccicava le parole e le sparava dritte e precise come una piccola pistola che spari semi di lampone. Dove l'avevo già sentita? E perché ognuna di quelle parole sembrava risvegliare qualcosa di sopito in fondo alla mia memoria? Cielo santissimo, mi dissi: componiti, tirati su. Che razza di sciocchezza è questa?
Lo sconosciuto ritornò al suo giornale e io finsi di fare altrettanto. Ma ormai ero completamente disorientato e non riuscivo affatto a concentrarmi nella lettura. Continuai invece a lanciargli occhiate di soppiatto da dietro la pagina dei commenti politici. Sì, era proprio una faccia insopportabile, volgarmente, quasi lascivamente bella, con una lucida, impudica patina d'abbronzatura sulla pelle. Ma l'avevo o no già vista prima in vita mia? Cominciai a pensare di sì perché, a un certo punto, guardandola avvertii uno strano senso di disagio che non saprei esattamente descrivere: qualcosa che aveva a che vedere con la sofferenza e la violenza, forse persino con la paura.
Durante tutto il resto del viaggio non ci rivolgemmo più la parola ma sarà facile immaginare che, a quel punto, la mia routine era completamente sconvolta. Insomma la mia giornata era rovinata e, all'ufficio, più di uno dei miei impiegati ebbe ad accorgersi del filo più tagliente della mia lingua, specialmente dopo colazione, quando cominciarono anche gli effetti della digestione.
La mattina dopo eccolo lì di nuovo, al centro della banchina, col bastone, la pipa, la sciarpa di seta e quella disgustosa bella faccia. Gli passai davanti e m'avvicinai a un certo Mr Grummitt, un agente di borsa che da ventotto anni ormai fa il pendolare insieme con me. Non posso dire di aver mai avuto una vera e propria conversazione con lui prima di quella mattina - siamo una compagnia di gente riservata in quella nostra stazioncina - ma una crisi del genere è più che sufficiente a farti rompere qualsiasi ghiaccio.
«Grummitt», dissi in un bisbiglio, «chi è quello zotico?»
«Non ne ho la minima idea», rispose lui.
«Molto sgradevole.»
«Molto.»
«Non sarà mai un regolare, immagino.»
«Oddio», fece lui.
In quel momento arrivò il treno.
Questa volta, con mio grande sollievo, quel tale entrò in un altro scompartimento.
Ma la mattina dopo era di nuovo nel mio.
«Bene», disse, allungandosi nel sedile proprio di fronte al mio. «Magnifica giornata.» E ancora una volta avvertii quello spiacevole rimescolio della memoria, più forte questa volta, più vicino alla superficie e tuttavia ancora non esattamente alla mia portata.
Alla fine arrivò il venerdì, l'ultimo giorno della settimana. Ricordo che mentre guidavo diretto alla stazione aveva piovuto, ma s'era trattato d'uno di quegli scintillanti acquazzoni di aprile che durano solo un cinque o sei minuti, e quando misi piede sulla banchina tutti gli ombrelli erano già avvoltolati e il sole splendeva, mentre nel cielo correvano grosse nubi bianche. Ciò nonostante mi sentivo depresso. Ormai quel viaggio non m'offriva più alcun piacere. Sapevo che avrei rivisto lo sconosciuto e, potete giurarci, eccolo lì infatti, a gambe divaricate, come se fosse il padrone del mondo. Questa volta faceva oscillare avanti e indietro il bastone, con indifferenza.
Il bastone! Bastò questo. Mi bloccai di colpo, come colpito da una pallottola.
«È Foxley!» urlai dentro di me. «Focoso Foxley! E ancora ruota il bastone!»
Mi avvicinai per guardare meglio. Posso assicurarvi che un trauma simile non l'ho mai avuto in vita mia. Era proprio lui, Foxley. Bruce Foxley, ovvero Focoso Foxley, come lo chiamavamo. E l'ultima volta che l'avevo visto, vediamo un po'... era stato a scuola, quando non avevo più di dodici o tredici anni.
A quel punto arrivò il treno e che il Signore mi assista se non montò ancora una volta nel mio scompartimento. Mise cappello e bastone sulla rete, poi si girò, prese posto e si diede da fare ad accendere la pipa. Dopodiché mi lanciò un'occhiata attraverso il fumo con quei gelidi occhietti e disse: «Una giornata spettacolare, vero? È quasi estate».
Impossibile sbagliare su quella voce, ormai. Non era mutata affatto. Solo che le cose che le avevo sempre sentito dire erano diverse.
«Benissimo, Perkins», diceva sempre. «Benissimo, brutto moccioso. Dovrò picchiarti di nuovo.»
Quando? Quanto tempo fa? Devono essere quasi cinquant'anni. Straordinario, però, com'erano cambiati poco i suoi tratti. Sempre quella maniera arrogante di sporgere il mento, di dilatare le narici, di lanciare occhiate sprezzanti con quegli occhietti troppo piccoli e un tantino troppo ravvicinati per metterti a tuo agio. Sempre quell'abitudine di starti addosso, d'incombere, di spingerti da parte. Persino i capelli ricordavo: di scadente qualità, leggermente ondulati, con un tantinello d'unto, come un'insalata girata e rigirata. Teneva sempre una bottiglia verde di lozione per capelli sul tavolinetto nel suo studio - quando sei costretto a spolverare continuamente una stanza finisci col conoscere e odiare tutti gli oggetti che essa contiene - e quella bottiglia recava lo stemma reale sull'etichetta col nome di un negozio di Bond Street e, sotto, a caratteri piccoli, la scritta: «Fornitori di Sua Maestà il Re Edoardo VII». Lo ricordo in modo particolare perché trovavo divertente che un negozio potesse vantarsi di fornire articoli per capelli a uno che era praticamente calvo. Per quanto monarca.
Seguii dunque i suoi movimenti, mentre s'allungava nel sedile di fronte al mio e s'accingeva a leggere il giornale. Strana sensazione ritrovarsi seduto a neppure un metro da uno che cinquant'anni prima m'aveva resto tanto infelice da farmi, una volta, pensare addirittura al suicidio. Non mi aveva riconosciuto, però; e, grazie ai miei baffi, non c'era pericolo che potesse farlo. Mi sentivo abbastanza al sicuro dunque e, lì seduto, potevo mirarlo e rimirarlo a mio piacimento.
Ripensandoci, ora, non v'è proprio alcun dubbio che il mio primo anno in collegio io abbia sofferto moltissimo per colpa di Bruce Foxley. E, per strano che possa sembrare, l'involontaria e indiretta causa di tanta sofferenza fu proprio mio padre. Avevo dodici anni e mezzo quando mi presentai la prima volta in quell'ottimo collegio. Era, vediamo, il 1907. Mio padre, che portava un cilindro di seta e una giacca a coda di rondine, m'accompagnò alla stazione e ancora oggi ricordo chiaramente che stavamo lì sulla banchina, in mezzo a cataste di bauli e scatole di dolciumi inviate agli studenti, mentre quelli che sembravano migliaia di ragazzi più grandi di me mulinavano tutt'intorno e parlavano e gridavano, quando, all'improvviso, uno di loro nel passare diede a mio padre un tale spintone da fargli quasi perdere l'equilibrio.
Mio padre, che era piccolino, garbato e dignitoso, si voltò con sorprendente rapidità e afferrò il colpevole per il polso.
«Non v'insegnano l'educazione in quel benedetto collegio, giovanotto?»
Il ragazzo, d'una testa almeno più alto di lui, guardò mio padre dall'alto in basso con un'occhiata fredda e arrogante e non disse niente.
«A me pare», proseguì mio padre, ricambiando l'occhiata, «che sarebbe il caso di scusarsi.»
Ma il ragazzo continuò a guardarlo dall'alto in basso con quello strano sorrisetto arrogante che gli increspava gli angoli della bocca e sporgendo sempre più il mento in fuori.
«Ho tutta l'impressione che tu sia un ragazzo impudente e maleducato», continuò mio padre. «Spero solo che tu sia un'eccezione nella tua scuola. Proprio non vorrei che un mio figliolo prendesse abitudini simili.»
A quel punto, il ragazzone piegò la testa leggermente nella mia direzione e un paio di occhietti freddi e piuttosto ravvicinati mi fissarono. Sul momento non provai nessun particolare timore; allora non sapevo niente del potere che in un collegio gli studenti anziani esercitano sulle matricole, quindi ricordo che lo guardai a mia volta, in sostegno di mio padre, che adoravo e rispettavo.
Allorché poi mio padre fece per aggiungere qualcos'altro, quel giovanotto voltò le spalle e s'allontanò a passo lento tra la folla sulla banchina.
Bruce Foxley non avrebbe mai più dimenticato quell'episodio. E naturalmente il colpo di vera sfortuna per me fu che quando arrivai al collegio mi ritrovai nella stessa «casa» con lui. Peggio, ero nella sua sezione. Lui era all'ultimo anno ed era prefetto - «comandone» lo chiamavamo noi - e, come tale, era ufficialmente autorizzato a picchiare tutti i pivelli che voleva. Poiché appartenevo alla sua sezione, finii col divenire il suo servo personale, il suo schiavo: gli facevo da valletto, cuoco, cameriere e fattorino, e mio dovere era badare a che non muovesse mai un dito a meno che non fosse assolutamente necessario. A questo mondo, in nessuna società che conosco un servo può essere bistrattato quanto, in un collegio, lo sono i pivelli, gli studenti del primo anno, da parte dei comandoni. Neve o gelo, ogni mattina dopo colazione mi toccava, per esempio, starmene seduto nel gabinetto (che era esterno e non riscaldato) a tener calda la tavoletta in attesa dell'arrivo di Foxley.
Ricordo quel suo modo dinoccolato ed elegante di camminare, e se nell'attraversare la stanza una sedia gli si parava davanti lui la buttava da parte e a me toccava correre a raddrizzarla immediatamente. Portava camicie di seta e aveva sempre un fazzoletto di seta cacciato nella manica della giacca; quanto alle scarpe, se le faceva fare da un certo Lobb (altro stemma reale). Erano a punta e naturalmente dovevo spazzolarle e strofinarle per quindici minuti ogni mattina per farle brillare come si doveva.
Il ricordo peggiore di tutti, però, è quello che conservo dello spogliatoio.
Ancora mi vedo, uno scampoletto di ragazzino pallido in viso in piedi poco oltre la porta di quello stanzone, in pigiama, pantofole e vestaglia color cammello. Appesa a un filo, al centro del soffitto, c'era una lampadina nuda e forte e appese tutt'intorno alle pareti le magliette nere e gialle dei calciatori, il cui puzzo di sudore riempiva la stanza, e lì, in quell'ambiente, ricordo la voce, la voce querula e indisponente, che diceva: «E allora, quanti questa volta? Sei con la vestaglia addosso... oppure quattro senza vestaglia?»
Una domanda alla quale ero sempre incapace di rispondere. E così restavo impalato lì, con gli occhi fissi sulle tavole del pavimento, stordito dalla paura e in grado di pensare solo al fatto che presto quel ragazzo più grande e più grosso avrebbe cominciato a colpirmi con quel suo lungo bastone bianco e sottile, lentamente, scientificamente, abilmente, nell'ambito della legalità e con evidente piacere. E io avrei sanguinato. Cinque ore prima, infatti, non ero stato capace di accendere il fuoco nel suo studio. Avevo speso tutto quanto possedevo per comprare una scatola di esca speciale per il fuoco, avevo steso un foglio di giornale davanti all'apertura del camino perché tirasse meglio e mi c'ero inginocchiato davanti e m'ero spolmonato a soffiare al di sotto della grata, ma i carboni non avevano voluto saperne di accendersi.
«Se ti ostini a non rispondere», stava dicendo la voce, «dovrò decidere io per te.»
Naturalmente la voglia di rispondere l'avevo, e disperata anche, perché sapevo quale scelta fare. È infatti la prima cosa che impari quando arrivi in una scuola: tieni sempre la vestaglia addosso, e accetta i colpi in più, altrimenti è sicuro che crepi dal dolore. Anche tre colpi con la vestaglia addosso van meglio che uno solo senza.
«Toglila allora. Vattene lì nell'angolo e toccati la punta dei piedi. Te ne darò quattro.»
Con gesti lentissimi, mi toglievo allora la vestaglia, la poggiavo sopra gli armadietti e lentamente, infreddolito e nudo in quel pigiama di cotone, quasi in punta di piedi, me ne andavo nell'angolo, e di colpo intorno a me tutto mi sembrava appiattito, lontano, come la proiezione d'una lanterna magica, e molto più grande, quasi irreale, brillante e vacillante, attraverso le lacrime che m'erano spuntate negli occhi.
«Toccati la punta dei piedi, avanti. Più giù... ancora più giù.»
Dopodiché lui si ritirava all'estremità opposta dello spogliatoio e io lo vedevo, capovolto, di mezzo alle gambe, scomparire oltre una porta che dava sui due gradini che portavano giù a quello che noi chiamavamo «il corridoio dei lavabi». Era un lungo corridoio piastrellato con una fila di lavabi lungo una parete che portava, in fondo, al bagno. Quando Foxley scompariva sapevo che si spingeva in fondo a quel corridoio. Faceva sempre così. Poi, lontani ma echeggianti tra lavabi e piastrelle, udivo i suoi passi sui mattoni del pavimento allorché si precipitava al galoppo verso di me e, di tra le gambe, lo vedevo superare con un balzo i due gradini e piombare nello spogliatoio avvicinandosi a grandi balzi a me, la testa spinta in avanti e il bastone levato in aria. A quel punto chiudevo gli occhi e aspettavo il colpo dicendomi che qualunque cosa succedesse non dovevo tirarmi su.
Chiunque sia stato bastonato a dovere vi dirà che il vero dolore non comincia che un otto o dieci secondi dopo che il colpo è stato assestato. Questo, di per sé, non è che una specie di rumore, un tonfo che si avverte sul didietro e che ti lascia completamente ammutolito (e mi dicono che una pallottola fa suppergiù lo stesso effetto quando ti penetra in corpo). Ma dopo, Dio santissimo, ti sembra che qualcuno ti stia poggiando dritto sulle natiche un ferro rovente, ed è assolutamente impossibile non allungare una mano nel tentativo di afferrarlo e allontanarlo.
Foxley sapeva tutto, naturalmente, sapeva di questo intervallo di tempo e il suo lento ritirarsi d'una quindicina di metri dopo ogni colpo dava tutto sommato a ognuno di questi tutto il tempo necessario per arrivare a infliggere il massimo del dolore prima dell'arrivo del successivo.
Invariabilmente, al quarto colpo io mi raddrizzavo nella persona. Era più forte di me. Era la reazione automatica da parte di un corpo che aveva sopportato il massimo di quanto poteva sopportare.
«Ti sei mosso», diceva puntualmente Foxley. «Dunque, questo non conta. Avanti, su: piegati.»
E così, per il colpo successivo, mi ricordavo di afferrarmi le caviglie.
Alla fine lui non mi perdeva d'occhio mentre - tutto irrigidito e tenendomi le natiche - andavo a prendere la vestaglia e l'indossavo, sempre cercando di dargli le spalle in modo che non mi vedesse in viso. E quando poi stavo per uscire lui gridava: «Ehi, tu! Vieni qui».
Mi fermavo allora sulla soglia e rimanevo lì in attesa.
«Torna indietro. Avanti, su: torna indietro. Bene... Non hai dimenticato qualcosa?»
In quel momento io riuscivo a concentrarmi soltanto sull'atroce e bruciante dolore alle natiche.
«Mi dai proprio l'impressione di essere un piccolo e impudente maleducato», diceva lui, imitando la voce di mio padre. «Non v'insegnano l'educazione in questa scuola?»
«Grazie», balbettavo io allora. «Grazie... per la bastonata.»
Dopodiché, su per le scale buie, me ne tornavo nel dormitorio dove le cose miglioravano perché il dolore cominciava a scomparire e gli altri ragazzi mi si affollavano intorno e mi trattavano con una certa simpatia dovuta al fatto che tutti loro avevano fatto la stessa esperienza, molte volte.
«Ehi, Perkins, diamo un'occhiata.»
«Quanti te ne ha dati?»
«Cinque, vero? S'è sentito benissimo da qui.»
«Avanti, su, giovanotto, vediamo i segni.»
Mi abbassavo i calzoni del pigiama e rimanevo lì impalato mentre il gruppo di esperti esaminava il danno con aria solenne.
«Abbastanza distanziati, vero? Non sembra la solita mano di Foxley.»
«Due sono vicini, però. Praticamente si toccano. Guarda questi due, non sono magnifici?»
«Questo in basso rivela tutta la sua malignità.»
«È andato fino in fondo al corridoio per prendere la rincorsa?»
«Ne hai avuto uno in più per esserti mosso, vero?»
«Accidenti, il vecchio Foxley ce l'ha davvero con te, Perkins.»
«Sanguinano anche un po'. Meglio lavarli, sai.»
Poi la porta s'apriva e compariva lui, Foxley; al che tutti si sparpagliavano fingendo di lavarsi i denti o di pregare o fare altre cose, mentre io mi ritrovavo lì solo, al centro della stanza, con i calzoni abbassati.
«Cosa c'è? Cosa sta succedendo qui dentro?» diceva Foxley, lanciando una rapida occhiata al suo capolavoro. «Tu, Perkins. Tirati su i calzoni e va' a letto.»
E questo metteva fine alla giornata.
Durante la settimana non avevo mai un momento libero. Se Foxley mi sorprendeva nello studio con un libro in mano o magari chino sull'album dei francobolli, mi trovava subito qualcosa da fare. Una delle sue specialità, soprattutto quando fuori pioveva, era: «Oh, Perkins, credo che un mazzetto di iris selvaggi starebbero bene sulla mia scrivania, non trovi?»
Gli iris selvaggi crescevano solo a Orange Ponds. Per arrivarci bisognava fare due miglia lungo la strada e mezzo attraverso i campi. Mi alzavo dalla sedia, dunque, infilavo l'impermeabile, calzavo il cappello di paglia, prendevo l'ombrello e mi mettevo in marcia. Quando s'andava fuori bisognava sempre portare il cappello di paglia, ma la pioggia, va da sé, lo distruggeva rapidamente, donde la necessità dell'ombrello. Per proteggerlo. D'altro canto, come fai a reggere l'ombrello, a ripararti la testa, mentre t'aggiri tra gli alberi d'una erta sponda di fiume in cerca di iris? Così, per non distruggere il cappello lo poggiavo a terra sotto l'ombrello e me ne andavo a capo scoperto in cerca di fiori. In tal modo mi presi una quantità di raffreddori.
Il giorno più spaventoso di tutti era però la domenica. Era il giorno dedicato alla pulizia dello studio, e con quanta vivida chiarezza ricordo il terrore di quelle mattine, lo spolverare e strofinare frenetico e poi l'attesa dell'ispezione di Foxley.
«Finito?» chiedeva.
«Credo... di sì.»
Andava allora alla sua scrivania, apriva il cassetto e tirava fuori un guanto bianco, spaiato, lo infilava con lente mosse alla mano destra, calzando ben bene ogni dito, mentre intanto io stavo lì e guardavo tremando ogni sua mossa. S'aggirava per la stanza e faceva scorrere l'indice guantato sulle cornici dei quadri, sugli scaffali, sul battiscopa, sui davanzali delle finestre, sui paralumi, e io non staccavo mai gli occhi da quel dito guantato. Per me rappresentava lo strumento del destino. Quasi sempre riusciva a scoprire qualche fessurina da me trascurata o di cui forse ignoravo l'esistenza, e quando questo succedeva, si girava lentamente e sorridendo, quel minaccioso sorriso che non era un sorriso, sollevava il dito bianco perché vedessi con i miei occhi il granellino di polvere che s'era depositato sul polpastrello.
«Bene», diceva poi. «Così sei un piccolo pigro, un negligente, vero?»
Nessuna risposta.
«Vero?»
«Credevo di aver spolverato dappertutto.»
«Sei o non sei un moccioso pigro e negligente?»
«S-sì.»
«Ma tuo padre non vuole che tu venga su in questo modo, vero? Tuo padre tiene moltissimo alle buone maniere, vero?»
Nessuna risposta.
«Ti ho fatto una domanda. Tuo padre tiene moltissimo alle buone maniere, vero?»
«Credo... di sì.»
«E dunque gli faccio un favore se ti punisco, vero?»
«Non lo so.»
«Vero?»
«S-sì.»
«Allora ci vediamo dopo, dopo le preghiere. Nello spogliatoio.»
Il resto del giorno si trasformava in un'agonia d'attesa, finché non giungeva la sera.
Oh, cielo santissimo, come mi tornava tutto alla mente, lì su quel treno. La domenica era anche il giorno dedicato alla corrispondenza. «Mamma e papà carissimi, grazie per la vostra lettera. Spero che stiate ambedue bene. Io sto bene, ho solo un raffreddore perché sono stato colto dalla pioggia, ma presto passerà. Ieri abbiamo giocato contro lo Shrewsbury e abbiamo vinto per 4 a 2. Io ero solo spettatore e Foxley che come sapete è il nostro caposquadra ha segnato una delle nostre reti. Davvero grazie per la torta, Con affetto William.»
Per scrivere la mia lettera di solito mi rifugiavo al gabinetto o in bagno, dovunque, purché fuori della portata di Foxley. Ma dovevo contare i minuti. Il tè era alle quattro e mezzo e il toast di Foxley doveva essere pronto per quell'ora. Dovevo preparargli il toast ogni giorno, ma nei giorni feriali non era permesso accendere il fuoco negli studi, così tutti i pivelli che dovevano preparare i toast per gli anziani dovevano accalcarsi davanti al focherello acceso in biblioteca, facendosi largo a gomitate per allungare il lungo forchetto con il toast in punta. In quelle condizioni, pertanto, dovevo ben badare a che il toast di Foxley fosse: 1) ben tostato, 2) per niente bruciato, 3) caldo e pronto al minuto esatto. Venendo meno a una di queste condizioni si commetteva un «punibile reato».
«Ehi, tu! Cos'è questo?»
«Un toast.»
«È davvero un toast, secondo te?»
«Be'...»
«Sei troppo pigro per farlo come si deve, vero?»
«Mi sono impegnato.»
«Sai cosa fanno ai cavalli pigri, Perkins?»
«No.»
«Tu sei un cavallo?»
«No.»
«Bene... allora sei un asino. Ah-ah! Ti sei proprio qualificato. Ci vedremo più tardi.»
Oh, l'angoscia di quei giorni. Bruciare il toast di Foxley era un «punibile reato». Lo stesso era dimenticarsi di pulire del fango le scarpette da pallone di Foxley. E trascurare di appendere maglietta e calzoncini di Foxley. E arrotolare nella maniera sbagliata l'ombrello di Foxley. E sbattere la porta dello studio quando Foxley studiava. E riempirgli la vasca con acqua troppo calda. E non lucidargli a dovere i bottoni della divisa da prefetto. E lasciar su questa le sbavature del lucido per ottone. E dimenticarsi di lucidargli le suole delle scarpe. E non rassettargli lo studio. In realtà, per lui, Foxley, io stesso rappresentavo un «punibile reato».
Guardai fuori dal finestrino. Mio Dio, eravamo quasi arrivati. Dovevo essermi abbandonato a quei pensieri da un bel po', non avevo neppure aperto il Times. Foxley se ne stava sempre allungato nel suo posto d'angolo di fronte a me e leggeva il Daily Mail, e attraverso la nuvola di fumo che si levava dalla sua pipa riuscivo a scorgere la parte alta del suo viso dietro al giornale, gli occhietti lucenti, la fronte corrugata, i capelli ondulati, leggermente unti.
Guardarlo ora, dopo tanto tempo, era una strana, eccitante esperienza. Sapevo che non era più pericoloso, ormai, eppure i vecchi ricordi non s'erano dispersi e in sua presenza non mi sentivo completamente a mio agio. Era, più o meno, come trovarsi dentro una gabbia insieme con una tigre domata.
Che sciocchezze son queste? mi dissi. Non essere stupido. Santo cielo, se proprio lo desideravi potevi dirgli esattamente cosa pensavi di lui, e lui non avrebbe potuto toccarti con un dito. Ehi... è un'idea!
Solo che... be'... dopotutto, ne vale la pena? Ormai sono troppo vecchio per queste cose, e non sono neppure sicuro di provare ancora tanta rabbia contro di lui.
E allora, cosa faccio? Non posso continuare a star qui a guardarlo come un idiota.
A quel punto, mi colse come un'empia vaghezza. Quel che mi piacerebbe fare, mi dissi, è di allungare una mano, picchiargli sul ginocchio e dirgli chi sono. Dopodiché studierei la sua faccia. Quindi comincerei a parlare dei tempi lontani della scuola, a voce abbastanza alta perché tutti gli altri nel vagone sentano. Gli ricorderei, tanto per gioco, tutto quello che mi faceva e magari gli descriverei le bastonate là nello spogliatoio, in modo da lasciarlo un tantino imbarazzato. Un po' di disagio non gli farebbe tanto male. Mentre a me farebbe un sacco di bene.
All'improvviso lui staccò gli occhi dal giornale e mi sorprese a fissarlo. Era la seconda volta che succedeva e notai un certo lampo d'irritazione nei suoi occhi.
Va bene, mi dissi. Cominciamo pure. Ma teniamoci su un piano educato, gentile e disinvolto. Così sarà molto più efficace e più imbarazzante per lui.
Gli sorrisi e gli feci un breve cenno col capo. Poi, alzando la voce, dissi: «Spero che voglia scusarmi. Vorrei presentarmi». Ero tutto sporto in avanti e non gli staccavo gli occhi di dosso per non perdermi la sua reazione. «Mi chiamo Perkins. William Perkins. Ero a Repton nel 1907.»
Tutti gli altri nel vagone rimasero immobili e capii che stavano con le orecchie tese, in attesa di ciò che sarebbe successo dopo.
«Lieto di conoscerla», disse lui, abbassando il giornale e poggiandolo in grembo. «Io mi chiamo Fortescue. Jocelyn Fortescue. Eton, 1916.»
Nessun commento:
Posta un commento