sabato 10 marzo 2018

ALBERT di L. Tolstoj





Cinque ricchi giovani arrivarono verso le tre di notte a un piccolo ballo di Pietroburgo per divertirsi.
Di sciampagna ne fu bevuto molto, una gran parte dei signori eran giovanissimi, le ragazze eran belle, il pianoforte e un violino sonavano infaticabili una polca dopo l'altra, le danze e il chiasso non cessavano un momento; ma si provava come una noia, un disagio, a ognuno pareva, chi sa perché (come spesso accade), che tutto ciò non fosse quello che ci voleva e fosse inutile.



Più volte essi fecero sforzi per ravvivar l'allegria, ma la finta allegria era anche peggio della noia.
Uno dei cinque giovani, più dei rimanenti scontento e di sé, e degli altri, e dell'intera serata, si alzò con un senso di disgusto, trovò il suo cappello e uscì con l'intenzione di andarsene alla chetichella.
Nell'anticamera non c'era alcuno, ma nella stanza attigua, dietro l'uscio, egli sentì due voci che discutevan fra loro. Il giovanotto sostò e si mise ad ascoltare.
- Non si può, là ci sono invitati - diceva una voce di donna.
- Lasciatemi entrare, per favore, non farò nulla di male! - supplicava una debole voce maschile.
- Ma io non vi lascerò entrare senza il permesso di madama - diceva la donna - dove andate? ah, come siete!...
L'uscio si spalancò e sulla soglia comparve una strana figura d'uomo. Scorto l'ospite, la donna di servizio smise di trattenerlo, e la strana figura, fatto un timido inchino, barcollando sulle gambe curve, entrò nella stanza. Era un uomo di media statura, con la schiena stretta e arcuata e lunghi capelli arruffati. Aveva indosso un corto pastrano e calzoni strappati e stretti sopra gli stivali ruvidi, non lucidati. La cravatta attorta come una corda fasciava un lungo collo bianco. La camicia sudicia sporgeva fuori delle maniche sopra le mani magre. Ma, nonostante la straordinaria magrezza del corpo, il viso era delicato, bianco e un fresco incarnato gli coloriva perfino le guance al disopra di una barba nera rada e delle fedine. I capelli spettinati, gettati all'insù, scoprivano una fronte non alta e oltremodo pura. Gli occhi scuri stanchi guardavano in avanti con aria dolce, insinuante e insieme grave. L'espressione loro si fondeva in modo incantevole con quella delle labbra fresche, incurvate agli angoli, che apparivano di sotto i baffi radi.
Fatti alcuni passi, egli ristette, si volse verso il giovanotto e sorrise. Sorrise come a fatica; ma quando il sorriso gli ebbe illuminato il volto, il giovane - senza sapere egli stesso perché - sorrise del pari.
- Chi è costui? - domandò bisbigliando alla donna di servizio, allorché la strana figura passò avanti nella stanza dove si sentiva ballare.
- E' un musicante pazzo del teatro - rispose la donna - viene qualche volta dalla padrona.
- Dove sei andato, Delesov? - si gridava intanto dalla sala.
Il giovanotto che avevano chiamato Delesov tornò nella sala.
Il musicante stava in piedi presso l'uscio e, guardando i ballerini, esprimeva col sorriso, con lo sguardo e col batter dei piedi il piacere procuratogli da quello spettacolo.
- E che, andate anche voi a ballare - gli disse uno degli ospiti.
Il sonatore s'inchinò e gettò uno sguardo interrogativo alla padrona.
- Andate, andate: che c'è, dal momento che i signori vi invitano! - intervenne la padrona.
Le magre, deboli membra del sonatore di colpo si misero vivacemente in moto, ed egli, ammiccando, sorridendo e stirandosi, si diede con mosse pesanti, senza agilità, a saltare per la sala. Nel mezzo di una quadriglia un allegro ufficiale che ballava con molta grazia e animazione urtò inavvertitamente col dorso il musicante. Le deboli, stanche gambe non mantennero l'equilibrio e il sonatore, fatti alcuni passi vacillanti da un lato, cadde lungo disteso sul pavimento. Nonostante il brusco e secco rumore prodotto dalla caduta, quasi tutti si misero a ridere nel primo momento.
Ma il sonatore non si alzava. Gli ospiti fecero silenzio, perfino il pianoforte smise di sonare, e Delesov e la padrona accorsero per primi verso il caduto. Egli giaceva su un gomito e guardava a terra con occhi spenti. Quando lo sollevarono e lo fecero sedere su una sedia, con una rapida mossa della mano ossuta rigettò indietro i capelli dalla fronte e prese a sorridere, senza rispondere nulla alle domande.
- Signor Albèrt! signor Albèrt! - diceva la padrona. - Che è, vi siete fatto male? dove? Ecco, lo dicevo io che non bisognava ballare. E' così debole - continuò, rivolgendosi agli ospiti - cammina a stento, come potrebbe!
- Chi è? - domandavano alla padrona.
- Un pover uomo, un artista. Un ottimo ragazzo, ma fa pietà, come vedete.
Ella diceva questo, senza pigliarsi soggezione per la presenza del musicante. Questi si riebbe e, come si fosse spaventato di qualche cosa, si rannicchiò e respinse quelli che gli stavano intorno.
- Tutto questo non è nulla - disse a un tratto, sollevandosi con visibile sforzo dalla sedia.
E per dimostrare che non provava alcun dolore, andò nel mezzo della stanza e volle fare un salto, ma barcollò e sarebbe nuovamente caduto, se non lo avessero sorretto. Tutti si sentirono a disagio; guardandolo, tutti tacevano. Lo sguardo del musicante tornò a offuscarsi ed egli, visibilmente dimentico di tutti, si sfregò con la mano un ginocchio. A un tratto alzò il capo, mise avanti una gamba tremante, con lo stesso gesto abituale di prima gettò indietro i capelli e, accostatosi al violinista, gli prese il violino.
- Non è nulla! - ripeté, brandendo il violino. - Signori, faremo un po' di musica.
- Che strana faccia! - dicevano fra loro gli ospiti.
- Forse un gran talento si va spegnendo in questo disgraziato essere! - proferì uno degli ospiti.
- Si, fa pietà, fa pietà! - diceva un altro.
- Che bel viso!... C'è in lui qualcosa di singolare - disse Delesov - ecco, vediamo...
Albèrt intanto, senza far attenzione a nessuno, col violino stretto contro la spalla, lo andava accordando, mentre camminava lentamente lungo il pianoforte. Le sue labbra si erano atteggiate in un'espressione impassibile, gli occhi non si vedevano; ma la stretta schiena ossuta, il lungo collo bianco, le gambe curve e la nera testa capelluta presentavano uno spettacolo bizzarro, ma, non so perché, niente affatto ridicolo. Accordato il violino, prese arditamente un accordo e, arrovesciando il capo, si rivolse al pianista, che si era preparato all'accompagnamento.
- "Melancholie" in sol maggiore! - disse, volgendosi con un gesto imperioso al pianista.
E subito dopo, come chiedendo perdono per il gesto imperioso, sorrise mansuetamente e con quel sorriso guardò in giro il pubblico. Gettati in alto i capelli con la mano che teneva l'archetto, Albèrt si fermò davanti a un angolo del pianoforte e con agile movimento passò l'archetto sulle corde. Nella stanza volò un suono puro, armonioso e si fece un perfetto silenzio. Le note del tema fluirono libere, eleganti dietro la prima, illuminando d'improvviso come di una luce inattesamente limpida e rasserenante il mondo interiore di ciascuno degli uditori. Non un suono falso o eccessivo turbò la dolce passività degli ascoltanti, tutti i suoni eran limpidi, eleganti e significativi. Tutti ne seguivano lo sviluppo in silenzio, con trepida speranza. Dallo stato di noia, di rumorosa distrazione e di sonno morale in cui si trovavano, quelle persone furono a un tratto inavvertitamente trasportate in un mondo del tutto diverso, da esse dimenticato. Ora nell'anima loro sorgeva un senso di quieta contemplazione del passato, ora di appassionato ricordo di qualcosa di felice, ora di uno smisurato bisogno di potenza e splendore, ora sentimenti di umiltà, di amore inappagato e malinconia. Suoni ora mesti e teneri, ora impetuosamente disperati, mescolandosi liberamente fra loro, fluivano e fluivano uno dopo l'altro con tanta eleganza, con tanta forza e inconsapevolezza che non si udivano le note, ma da sé si riversava nell'anima di ciascuno un bellissimo torrente di poesia da gran tempo nota, ma per la prima volta espressa. Albèrt a ogni nota si ergeva sempre più alto. Era lungi dall'essere deforme o strano.


2.
Stretto col mento il violino e tendendo l'orecchio alle proprie note, con un atteggiamento di appassionata attenzione, egli spostava i piedi convulsamente. Ora si raddrizzava in tutta la sua statura, ora curvava con impegno la schiena. La mano sinistra, ripiegata con sforzo, pareva irrigidita nella sua posizione e solo agitava con moto convulso le dita ossute; la destra si moveva agile, elegante, inavvertita. Il volto splendeva di una gioia continua, entusiastica; gli occhi ardevano di un luminoso asciutto splendore, le narici si dilatavano, le rosse labbra si schiudevano dal piacere.
A volte la testa si chinava più accosto al violino, gli occhi si chiudevano e il volto, semicoperto dai capelli, si illuminava d'un sorriso di mite beatitudine. A volte egli si raddrizzava rapido, mettendo avanti un piede, e la fronte pura e lo sguardo sfavillante con cui guardava in giro la stanza splendevano di orgoglio, di grandezza, di coscienza del proprio potere. Una volta il pianista sbagliò e prese un accordo falso. Una sofferenza fisica si dipinse in tutta la figura e nel viso del musicante. Egli si fermò per un secondo e, con un'espressione di stizza infantile, pestando il piede, gridò: «Modo minore, do minore!». Il pianista si corresse, Albèrt chiuse gli occhi, sorrise e, nuovamente dimentico di sé, degli altri e di tutto il mondo, si abbandonò con beatitudine alla sua occupazione.
Quanti si trovavano nella stanza durante la sonata di Albèrt serbavano un umile silenzio e pareva che vivessero e respirassero soltanto dei suoi suoni.
L'allegro ufficiale stava a sedere immobile su una sedia presso la finestra, fissando sul pavimento uno sguardo inerte, e respirava con fiato pesante e a radi intervalli. Le ragazze eran sedute lungo le pareti in un perfetto silenzio e solo ogni tanto si scambiavano occhiate fra loro, esprimendo un'approvazione che giungeva allo stupore. Il grasso viso sorridente della padrona si rilasciava dal piacere. Il pianista figgeva gli occhi nel volto di Albèrt e, con una paura di sbagliare che si esprimeva in tutta la sua figura tesa, si sforzava di seguirlo. Uno degli ospiti, che aveva bevuto più degli altri, giaceva bocconi su un divano e cercava di non muoversi, per non palesare la sua commozione. Delesov provava un sentimento inconsueto. Una specie di cerchio freddo gli stringeva il capo, ora serrandosi, ora allentandosi. Le radici dei capelli gli si facevano sensibili, un gelo gli correva su per la schiena, qualcosa, salendo sempre più su verso la gola, lo pungeva nel naso e nel palato come con aghi sottili e le lacrime gli bagnavano, inavvertite, le guance. Egli si scoteva, cercava, senza farsi notare, di richiamarle indietro e asciugarle, ma altre, nuove, sgorgavano e gli scorrevan sul viso. Per una certa strana concatenazione di impressioni, le prime note del violino di Albèrt avevano riportato Delesov verso la sua prima giovinezza. Egli - un uomo non più giovane, stanco della vita, esausto - si sentì a un tratto un essere diciassettenne presuntuosamente bello, beatamente sciocco e, senza averne coscienza, felice. Gli tornò in mente il primo amore per la cugina col vestitino rosa, gli tornò in mente la prima dichiarazione nel viale dei tigli, gli risovvennero la febbre e il fascino incomprensibile di un bacio casuale, la magia e l'enigmatica misteriosità della natura che allora lo circondava. Nella sua immaginazione tornata indietro negli anni splendeva "lei" in una nebbia d'indefinite speranze, d'incomprensibili desideri e di non dubbia fiducia nella possibilità di una felicità impossibile. Tutti i momenti non apprezzati di quel tempo sorgevano davanti a lui uno dopo l'altro, ma non come attimi insignificanti di un fugace presente, bensì come immagini del passato che si eran fermate, crescevano e lo rimproveravano. Egli le contemplava con delizia e piangeva: piangeva non perché era trascorso quel tempo, che egli avrebbe potuto impiegar meglio (se gli avessero restituito quel tempo, non si sarebbe assunto di impiegarlo meglio), ma piangeva solo perché quel tempo era trascorso e non sarebbe tornato mai più. I ricordi spuntavano da sé, e il violino di Albèrt diceva sempre la stessa cosa. Diceva: «E' passato per te, è passato per sempre il tempo della forza, dell'amore e della felicità, è passato e mai più tornerà. Rimpiangilo, piangi tutte le tue lacrime, muori fra le lacrime che versi per quel tempo: questo solo è la miglior felicità che ti sia rimasta».
Verso la fine dell'ultima variazione il volto di Albèrt si fece rosso, i suoi occhi ardevano senza offuscamenti, grosse gocce di sudore gli colavano per le guance. Sulla fronte le vene si eran gonfiate, tutto il corpo sempre più si metteva in movimento, le labbra sbiancate non si chiudevano più, e tutta la figura esprimeva un'estatica avidità di godimento.
Disperatamente agitando tutto il corpo e scrollando i capelli, egli abbassò il violino e con un sorriso di orgogliosa grandezza e felicità guardò in giro i presenti. Poi la schiena gli s'incurvò, la testa ricadde, le labbra si strinsero, gli occhi si offuscarono, ed egli, come vergognandosi di sé, guardandosi attorno timidamente e inciampando, passò in un'altra stanza.


3.
Un che di strano era accaduto a tutti i presenti e un che di strano si sentiva nel silenzio di morte che aveva seguito la sonata di Albèrt. Come se ciascuno volesse e non sapesse esprimere quello che tutto ciò significava. Che cosa significavano la stanza luminosa e calda, delle donne splendide, l'aurora alle finestre, il sangue in tumulto e la pura impressione dei suoni volati via? Ma nessuno neppur tentava di dire quel che ciò significasse; al contrario, quasi tutti, non sentendosi la forza di passare totalmente dalla parte di ciò che la nuova impressione aveva loro dischiuso, si ribellarono ad essa.
- Eppure suona proprio bene - disse l'ufficiale.
- Meravigliosamente! - rispose Delesov, asciugandosi di soppiatto le guance con la manica.
- E' tempo di andare però, signori - disse, riavutosi alquanto, quello che giaceva sul divano. - Bisognerà dargli qualcosa, signori. Facciamo una colletta.
Albèrt intanto stava seduto, solo, nell'altra stanza su un divano. Appoggiato coi gomiti sulle ginocchia ossute, si accarezzava il viso con le mani sudate, sporche, si gettava in su i capelli e sorrideva felice tra sé e sé.
Fecero una ricca colletta e Delesov s'incaricò di consegnare la somma.
Inoltre a Delesov, sul quale la musica aveva prodotto una così forte e inconsueta impressione, venne l'idea di far del bene a quell'uomo. Gli venne in capo di prenderlo con sé, vestirlo, trovargli un qualche posto, insomma di toglierlo da quelle condizioni indecorose.
- E che, siete stanco? - domandò Delesov, avvicinandoglisi.
Albèrt sorrideva.
- Avete un vero talento; dovreste occuparvi seriamente di musica, sonare in pubblico.
- Berrei qualche cosa - disse Albèrt, come si fosse destato.
Delesov portò del vino e il musicante ne bevve con avidità due bicchieri.
- Che vino eccellente! - disse.
- «Malinconia», che cosa incantevole! - disse Delesov.
- Oh! sì, sì - rispose, sorridendo, Albèrt - ma scusatemi, io non so con chi ho l'onore di parlare; forse voi siete un conte o un principe: non mi potete prestare un po' di denaro? - Tacque un momento. - Io non ho nulla... sono un pover uomo. Non ve lo potrò rendere.
Delesov arrossì, provò imbarazzo e si affrettò a consegnare al musicante il denaro raccolto.
- Vi ringrazio molto - disse Albèrt, afferrando il denaro. - Adesso lasciatemi fare un po' di musica; sonerò per voi quanto vorrete. Pur che potessi bere qualcosa, bere - soggiunse, alzandosi.
Delesov gli portò dell'altro vino e lo pregò di porsi a sedere accanto a lui.
- Scusatemi, se sarò franco con voi - disse Delesov - il vostro talento mi ha tanto interessato. Mi pare che non siate in buone condizioni, eh?
Albèrt gettava occhiate ora a Delesov, ora alla padrona che era entrata nella stanza.
- Permettetemi di offrirvi i miei servigi - continuò Delesov.
- Se aveste bisogno di qualcosa, sarei lietissimo che voi per qualche tempo veniste a stare da me. Io vivo solo e forse vi sarei utile.
Albèrt sorrise e non rispose nulla.
- Perché non ringraziate? - disse la padrona. - Per voi, s'intende, è un benefizio. Solo che non ve lo consiglierei - proseguì, rivolgendosi a Delesov e crollando negativamente il capo.
- Vi sono molto grato - disse Albèrt, stringendo con le mani umide quella di Delesov - ma ora lasciatemi fare un po' di musica, per favore.
Ma gli altri ospiti già si eran preparati per andar via e, per quanto Albèrt cercasse di persuaderli, uscirono nell'anticamera. Albèrt salutò la padrona e, dopo essersi messo il logoro cappello a larghe falde e la vecchia almaviva (1) da estate che formavano tutto il suo vestiario invernale, uscì insieme con Delesov sul terrazzino d'ingresso.
Quando Delesov salì in carrozza col suo nuovo conoscente e sentì quello sgradevole odore di ubriachezza e di sporcizia di cui era imbevuto il musicante, cominciò a pentirsi del suo atto e ad accusarsi di puerile tenerezza di cuore e irriflessività. Per giunta tutto quel che diceva Albèrt era così sciocco e comune ed egli, all'aria libera, era diventato a un tratto così sconciamente ubriaco che Delesov provò schifo. «Che farò di lui?» pensò. Dopo un quarto d'ora di strada, Albèrt tacque, il cappello gli scivolò ai piedi, egli si buttò in un angolo della carrozza e prese a russare. Le ruote stridevano in modo uniforme sulla neve gelata; la debole luce dell'aurora penetrava appena attraverso i vetri velati di ghiaccio.
Delesov si volse a guardare il suo vicino. Il lungo corpo, coperto dal mantello, gli giaceva accanto inerte. A Delesov pareva che la lunga testa col gran naso scuro dondolasse su quel torso; ma, osservando più da vicino, si accorse che ciò che aveva preso per il naso e il viso erano i capelli e che la faccia era più in basso. Si chinò ed esaminò i lineamenti di Albèrt. Allora la bellezza della fronte e della bocca tranquillamente atteggiata tornò a colpirlo.
Sotto l'influsso dei nervi stanchi, dell'irritante ora insonne del mattino e della musica udita, Delesov, guardando quel volto, si trasportò daccapo nel mondo beato in cui quella notte aveva gettato uno sguardo; daccapo gli venne alla mente il tempo felice e generoso della giovinezza, ed egli cessò di pentirsi del suo atto. In quel momento voleva bene ad Albèrt con sincerità e calore e fermamente stabilì di fargli del bene.


4.
La mattina del giorno dopo, quando lo destarono perché andasse all'ufficio, Delesov vide attorno a sé con ingrata meraviglia il suo vecchio paravento, il suo vecchio servitore e l'orologio sul tavolino. «Che cosa vorrei dunque vedere, se non ciò che sempre mi circonda?» domandò a se stesso. Qui gli tornarono in mente gli occhi neri e il sorriso felice del musicante; il motivo di «Malinconia» e tutta la strana notte trascorsa gli balenarono nell'immaginazione.
Non aveva tempo però di riflettere se avesse agito bene o male, prendendo con sé il sonatore. Mentre si vestiva, distribuì mentalmente la sua giornata: prese le carte, diede le necessarie disposizioni domestiche e in fretta s'infilò il cappotto e le calosce. Passando davanti alla sala da pranzo, gettò uno sguardo dall'uscio. Albèrt, con la faccia ficcata nel guanciale e tutto scomposto, con la sudicia e lacera camicia indosso, dormiva d'un sonno di morte sul divano di marocchino, dove l'avevano posto, privo di sensi, la sera prima. Qualcosa non andava bene: così pareva involontariamente a Delesov.
- Va', per favore, a mio nome da Boriusovski, chiedigli il violino per un paio di giorni, per lui - disse al suo servitore - e quando si sveglierà, dagli il caffè e fagli indossare qualcosa della mia biancheria e un vecchio vestito. In generale, accontentalo nel miglior modo. Ti prego.
Tornato a casa a sera tarda, Delesov, con sua meraviglia, non trovò Albèrt.
- Dov'è mai? - domandò al domestico.
- Subito dopo pranzo è andato via - rispose il servo - ha preso il violino e se n'è andato; aveva promesso di tornare entro un'ora, ma fino a questo momento non è tornato.
- Già! già! è seccante - proferì Delesov. - Come mai l'hai lasciato andare, Zachàr?
Zachàr era un domestico di Pietroburgo, che già da otto anni serviva in casa di Delesov. Delesov, come scapolo solo, involontariamente gli confidava i suoi propositi e aveva piacere di conoscere l'opinione su ciascuna delle sue imprese.
- Come avrei osato non lasciarlo andare? - rispose Zachàr, giocando col sigillo del suo orologio. - Se voi mi aveste detto, Dmitri Ivànovic', di trattenerlo, l'avrei potuto occupare in casa. Ma voi mi parlaste solo del vestito.
- Già! è seccante! Be', e che ha fatto qui in mia assenza?
Zachàr sorrise.
- Lo si può proprio chiamare un artista, Dmitri Ivànovic'. Come si svegliò, chiese del madera, poi s'intrattenne sempre con la cuoca e col domestico del vicino. E' così buffo... Di carattere assai buono però. Gli diedi del tè, gli portai da pranzo, ma, solo, non voleva mangiar nulla, non faceva altro che invitarmi. Ma quando poi suona il violino, è proprio vero che di simili artisti da Izlèr ce n'è pochi. Un uomo simile lo si può tenere. Quando ci sonò «Giù per la madre Volga» (2), era come se una persona piangesse. Troppo bello! Perfino dagli altri piani venne gente nel nostro ingresso per ascoltare.
- Be', e l'hai rivestito? - interruppe il padrone.
- Come no! gli ho dato una vostra camicia da notte e gli ho messo indosso un mio pastrano. Un uomo siffatto lo si può aiutare, è proprio una cara persona. - Zachàr sorrise. - Mi domandava sempre che grado avete voi, se avete conoscenze importanti, e quanti contadini-servi.
- Su via, bene, ma ora bisognerà rintracciarlo e d'ora innanzi non dargli nulla da bere, se no lo farai stare anche peggio.
- Questo è vero - interruppe Zachàr - è debole di salute, si vede, da noi in casa d'un signore c'era un fattore così...
Delesov, che già da un pezzo conosceva la storia del fattore divenuto ubriaco cronico, non lasciò che Zachàr finisse e, dopo aver ordinato che gli preparasse ogni cosa per la notte, lo mandò a cercare e ricondurre Albèrt.
Si coricò in letto, spense la candela, ma per lungo tempo non si poté addormentare, pensava sempre ad Albèrt. «Anche se tutto ciò può sembrare strano a molti dei miei conoscenti - pensava Delesov - pure così di rado si fa qualche cosa per gli altri che bisogna ringraziar Dio, quando si presenta una simile occasione, e io non la lascerò scappare. Farò tutto, farò assolutamente tutto quello che posso per aiutarlo. E se non fosse pazzo per nulla, ma solo alcoolizzato? La cosa non mi costerà punto cara: dove mangia uno, si può mangiare in due. Stia prima un poco in casa mia, poi gli troveremo un posto o gli combineremo un concerto, lo tireremo fuori delle secche, e poi si vedrà.»
Un piacevole sentimento di contentezza di sé si impossessò di lui dopo tale ragionamento. «Davvero, non sono un uomo del tutto cattivo; anzi non sono affatto cattivo - pensò. - Anzi sono un'ottima persona, se mi confronto con altri...»
Già si addormentava, quando i rumori di una porta aperta e di passi nell'anticamera lo distrassero.
«Be', lo tratterò un po' più severamente - pensò - è meglio; e io lo devo fare.»
Egli sonò.
- E che, l'hai condotto? - domandò a Zachàr che era entrato.
- E' un uomo che fa pena, Dmitri Ivànovic' - disse Zachàr, crollando significativamente il capo e chiudendo gli occhi.
- Che c'è, è ubriaco?
- E' debolissimo.
- E ha il violino con sé?
- L'ha portato, sì, la padrona gliel'ha consegnato.
- Be', per favore, non lasciarlo venir da me ora, mettilo a dormire e domani non lasciarlo uscir di casa in nessuna maniera.
Ma Zachàr non fece in tempo a uscire che nella stanza entrò Albèrt.


5.
- Volete già dormire? - disse Albèrt, sorridendo. - E io sono stato là, da Anna Ivànovna. Ho passato la serata in modo molto piacevole: abbiamo fatto musica, abbiamo riso, c'era una compagnia simpatica. Permettetemi di bere un bicchiere di qualche cosa - soggiunse, afferrando la caraffa dell'acqua che stava sul tavolino - solo non acqua.
Albèrt era come il giorno avanti: lo stesso bel sorriso negli occhi e sulle labbra, la fronte ispirata e le membra deboli. Il pastrano di Zachàr gli andava proprio a pennello e il colletto pulito, lungo, non inamidato della camicia da notte era rivoltato in modo pittoresco intorno al suo sottile collo bianco e gli conferiva un che di particolarmente infantile e innocente. Sedette per un momento sul letto di Delesov e lo guardò in silenzio, sorridendo con gioia e riconoscenza. Delesov guardò negli occhi Albèrt e a un tratto tornò a sentirsi in potere del suo sorriso. La voglia di dormire gli passò, egli dimenticò il suo dovere di essere severo, anzi gli venne il desiderio di divertirsi, di ascoltar musica e di chiacchierare amichevolmente con Albèrt, magari fino al mattino. Delesov ordinò a Zachàr di portare una bottiglia di vino, delle sigarette e il violino.
- Ecco un'ottima cosa - disse Albèrt - è ancora presto, faremo musica e io sonerò per voi quanto volete.
Zachàr con visibile piacere portò una bottiglia di "lafitte", due bicchieri, le sigarette deboli che fumava Albèrt e il violino. Ma invece di andar a dormire, come gli aveva ordinato il padrone, sedette anche lui, accesa una sigaretta, nella stanza attigua.
- Discorriamo piuttosto un poco - disse Delesov al musicante, che stava per impugnare il violino.
Albèrt sedette docile sul letto e sorrise di nuovo gioiosamente.
- Ah, sì - disse, datosi a un tratto con la mano un colpo in fronte, assumendo un'espressione impensierita e curiosa. (L'espressione del suo volto precorreva sempre ciò che egli voleva dire.) - Permettete una domanda... - si fermò un poco - quel signore che era là con voi, ieri sera... voi lo chiamavate N., non è figlio del celebre N.?
- Suo figlio carnale - rispose Delesov, senza capire affatto perché ciò potesse interessare Albèrt.
- Appunto - disse egli, sorridendo soddisfatto di sé - ho notato poc'anzi nei suoi modi qualcosa di particolarmente aristocratico. A me piacciono gli aristocratici: nell'aristocrazia si vede un che di bello e di elegante. E quell'ufficiale che balla così bene - domandò - anche lui mi è piaciuto molto, è così allegro e distinto! E' l'aiutante N.N., mi pare?
- Quale? - domandò Delesov.
- Quello che mi urtò, quando ballavamo. Dev'essere una gran brava persona.
- No, è un ragazzo vuoto - rispose Delesov.
- Ah, no! - lo difese con calore Albèrt - in lui c'è qualcosa di molto, molto piacevole. Anche lui è un eccellente musicista - soggiunse Albèrt - ha sonato là qualcosa di un'opera. Da un pezzo nessuno mi era piaciuto tanto.
- Sì, suona bene, ma non mi piace il suo modo di sonare - disse Delesov, desiderando portare il suo interlocutore a discorrer di musica - lui la musica classica non la capisce; e Donizetti e Bellini, quella non è mica musica. Voi certo siete di questa stessa opinione?
- Oh, no, no, scusatemi - si mise a dire Albèrt con una dolce aria di protezione - la vecchia musica è musica, e anche la nuova è musica. Anche nella nuova ci sono bellezze straordinarie: e la "Sonnambula"?! e il finale della "Lucia"?! e "Chopin"?! e "Roberto"?! (3) Io penso spesso... - egli si fermò, raccogliendo evidentemente le idee - che se Beethoven fosse vivo, piangerebbe di gioia, ascoltando la "Sonnambula". Dappertutto ha del bello. Io sentii la prima volta la "Sonnambula", quando qui c'erano la Viardot e Rubini: ecco quel che era - disse, con gli occhi luccicanti, facendo un gesto con tutt'e due le mani, come se si strappasse qualcosa dal petto. - Ancora un poco di più, e non si sarebbe potuto sopportare.
- Be', e adesso come giudicate l'opera? - domandò Delesov.
- La Bosio (4) è buona, molto buona - rispose - straordinariamente squisita, ma non tocca qui - disse, indicando il suo petto infossato. - Per una cantante è necessaria la passione, e lei non ne ha. Lei fa gioire, ma non soffrire.
- Be', e Lablache? (5)
- L'avevo già sentito a Parigi nel "Barbiere di Siviglia"; allora era unico, ma ormai è vecchio: non può più essere un artista, è vecchio.
- Che fa che sia vecchio? è pur sempre buono nei "morceaux d'ensemble" - proferì Delesov, che diceva sempre questo di Lablache.
- Come, che fa che sia vecchio? - replicò Albèrt severamente. - Non deve esser vecchio. Molte cose son necessarie per l'arte, ma la principale è il fuoco! - disse con gli occhi lucenti, levando tutt'e due le mani in alto.
E in realtà un terribile fuoco interno ardeva in tutta la sua figura.
- Ah, Dio mio! - disse a un tratto. - Voi non conoscete Petròv, l'artista?
- No, non lo conosco - rispose sorridendo Delesov.
- Come vorrei che faceste la sua conoscenza! A parlare con lui trovereste piacere. Come anche lui capisce l'arte! Noi prima c'incontravamo spesso da Anna Ivànovna, ma lei adesso è in collera con lui per non so che cosa. Ma io desidererei molto che faceste la sua conoscenza. E' un grande, grande ingegno.
- E che, dipinge quadri? - domandò Delesov.
- Non so; no, mi pare, ma era un artista dell'Accademia. Quali pensieri ha! A volte, quando parla, è una cosa meravigliosa. Oh, Petròv è un grande ingegno, solo conduce una vita troppo allegra. Questo, sì, rincresce - soggiunse Albèrt, sorridendo.
Subito dopo si levò su dal letto, prese il violino e cominciò ad accordarlo.
- E che, da molto tempo non siete stato all'opera? - gli domandò Delesov.
Albèrt si guardò intorno e sospirò.
- Ah, non posso più - disse, afferrandosi il capo. Tornò a sedere accanto a Delesov. - Vi dirò - pronunziò quasi sottovoce - non ci posso andare, là non posso sonare, non ho nulla, nulla: non vestiti, non casa, non violino. Una vitaccia! una vitaccia! - ripeté più volte. - E poi perché ci dovrei andare? Perché questo? non bisogna - disse sorridendo. - Ah, il "Don Giovanni"! (6)
E si picchiò in testa.
- Allora ci andremo qualche volta insieme - disse Delesov.
Albèrt, senza rispondere, balzò su, diede di piglio al violino e cominciò a sonare il finale del primo atto del "Don Giovanni", raccontando con parole sue il contenuto dell'opera.
A Delesov formicolarono i capelli sul capo, mentre egli sonava l'aria del commendatore morente.
- No, ora non posso sonare - disse, posando il violino - ho bevuto molto.
Ma subito dopo si avvicinò alla tavola, si versò un bicchiere pieno di vino, lo bevve d'un fiato e tornò a sedere sul letto vicino a Delesov.
Delesov guardava Albèrt, senza staccarne gli occhi; Albèrt ogni tanto sorrideva, e sorrideva anche Delesov. Tacevano tutti e due; ma fra loro, con lo sguardo e il sorriso, si andavano stabilendo sempre più stretti rapporti di affetto. Delesov sentiva di voler sempre più bene a quell'uomo e provava un'incomprensibile gioia.
- Siete stato innamorato? - domandò a un tratto.
Albèrt si fece pensieroso per alcuni secondi, poi il volto gli si rischiarò di un malinconico sorriso. Si chinò verso Delesov e lo guardò attentamente proprio negli occhi.
- Perché mi avete domandato questo? - pronunziò sottovoce. - Ma a voi racconterò tutto, voi mi siete piaciuto - continuò, vi racconterò tutto, come è stato, dal principio. - Si fermò, e anche i suoi occhi si fermarono in modo strano, bizzarro. - Voi sapete che io son debole di senno - disse a un tratto. - Sì, sì - continuò - Anna Ivànovna di certo ve ne ha parlato. Lei dice a tutti che sono pazzo! Questo è falso, lei lo dice per celia, è una brava donna; ma è esatto che da qualche tempo non sono più del tutto in salute.
Albèrt tacque di nuovo e con gli occhi fattisi immobili, dilatati guardò verso l'uscio buio.
- Mi domandavate se sono stato innamorato? Sì, fui innamorato - sussurrò, alzando le sopracciglia. - Ciò accadde molto tempo fa, ancora al tempo che avevo il mio posto al teatro. Io andavo a sonare il secondo violino nell'opera e lei veniva in carrozza a occupare il suo palco di proscenio riservato a mano sinistra.
Albèrt si alzò e si piegò verso l'orecchio di Delesov.
- No, perché nominarla? - disse. - Voi certo la conoscete, tutti la conoscono. Io tacevo e la guardavo soltanto; sapevo di essere un povero artista, mentre lei era una dama aristocratica. Lo sapevo benissimo. La guardavo soltanto e non pensavo nulla.
Albèrt si fece meditabondo, cercando di rammentare.
- Come fosse accaduto, non ricordo; ma fui chiamato una volta ad accompagnarla col violino. Be', che son io, un povero artista! - disse, crollando il capo e sorridendo. - Ma no, io non so raccontare, non so... - soggiunse, afferrandosi il capo.
- Come ero felice!
- Ebbene, foste spesso da lei? - domandò Delesov.
- Una volta, una volta soltanto... ma io stesso n'ebbi colpa, ero impazzito. Io sono un povero artista, e lei è una dama aristocratica. Non avrei dovuto dirle nulla. Ma ero impazzito, feci delle sciocchezze. Da quel momento per me tutto fu finito. Petròv m'ha detto la verità: sarebbe stato meglio vederla soltanto in teatro...
- Che faceste dunque? - domandò Delesov.
- Ah, aspettate, aspettate, non vi posso raccontar questo.
E, copertosi il volto con le mani, stette zitto un po' di tempo.
- Venni in orchestra tardi. Avevo bevuto con Petròv quella sera, ed ero scombussolato. Lei era seduta nel suo palco e discorreva con un generale. Non so chi fosse quel generale. Stava seduta proprio al margine e aveva posato le mani sulla ribalta; aveva indosso un abito bianco e delle perle al collo. Parlava con lui e mi guardava. Due volte mi guardò. Aveva un'acconciatura, ecco, a questa maniera; io non sonavo, stavo vicino al basso e guardavo. Qui per la prima volta provai qualcosa di strano. Ella sorrise al generale e mi guardò. Avevo la sensazione che parlasse di me, e a un tratto non mi vidi più nell'orchestra, ma nel palco, stavo con lei e la tenevo per la mano, a questo punto. Che è mai ciò? - domandò Albèrt dopo un po' di silenzio.
- Vivacità d'immaginazione - disse Delesov.
- No, no... ma io non so raccontare - rispose Albèrt, corrugandosi in viso. - Già allora ero povero, non avevo casa e, quando andavo al teatro, a volte restavo là a passar la notte.
- Come? in teatro? nella sala buia e vuota?
- Ah! io non ho paura di queste sciocchezze. Ah, aspettate! Appena tutti erano usciti, me ne andavo a quel palco di proscenio dove lei era stata a sedere e ci dormivo. Era la mia unica gioia! Quali notti passavo là! Solo che una volta mi ricominciò quella cosa. Nella notte presero ad apparirmi molte cose, ma io non vi posso raccontare un gran che. - Albèrt, abbassate le pupille, guardava Delesov. - Che è mai ciò? - domandò.
- Strano! - disse Delesov.
- No, aspettate, aspettate! - continuò sottovoce, parlandogli all'orecchio. - Le baciavo la mano, piangevo lì accanto a lei, parlavo molto con lei. Sentivo l'odore dei suoi profumi, sentivo la sua voce. Molte cose mi disse in una sola notte. Poi presi il violino e cominciai a sonare piano piano. E sonai egregiamente. Ma mi prese paura. Io non ho timore di queste sciocchezze e non ci credo; ma mi prese paura per la mia testa - disse, sorridendo amabilmente e toccandosi con la mano la fronte - mi prese paura per la mia povera mente: mi pareva che qualcosa mi fosse accaduto nella testa. Forse, questo non è nulla? Che ne pensate? Entrambi tacquero per alcuni minuti.

"Und wenn die Wol\en sie verhüllen,
Die Sonne bleibt dock ewig klar"
[Anche se le nubi lo nascondono, / Rimane il sole eternamente limpido] -

cantò Albèrt, sorridendo in silenzio. - Non è vero? - soggiunse.

"Ich auch habe gelebt und genossen"
[Anch'io ho vissuto e goduto]. -

Ah! il vecchio Petròv come vi avrebbe spiegato bene tutto questo!
Delesov, zitto, guardava con terrore il viso agitato e impallidito del suo interlocutore.
- Conoscete il «Valzer dei Giuristi»? - gridò a un tratto Albèrt e, senza attender risposta, balzò su, afferrò il violino e cominciò a sonare l'allegro valzer. Abbandonandosi tutto e supponendo, evidentemente, che dietro a lui sonasse un'intera orchestra, Albèrt sorrideva, si dondolava, moveva le gambe e sonava magnificamente.
- Eh, basta di divertirsi! - disse, terminando e agitando il violino.
- Io ci andrò - disse poi, dopo esser rimasto un poco a sedere in silenzio - e voi non verrete?
- Dove? - domandò meravigliato Delesov.
- Andremo di nuovo da Anna Ivànovna, là si sta allegri: chiasso, gente, musica.
Delesov nel primo momento per poco non acconsentì. Tuttavia, ripresosi, cominciò a esortare Albèrt perché quella notte non ci andasse.
- Ci andrei per un momento.
- Davvero, non ci andate.
Albèrt sospirò e posò il violino.
- Allora rimanere?
Guardò ancora la tavola (vino non ce n'era) e, augurata la buona notte, uscì.
Delesov sonò.
- Bada, non lasciar andare in nessun posto il signor Albèrt senza il mio permesso - disse a Zachàr.


6.
Il giorno dopo era festa. Delesov, destatosi, se ne stava seduto nel salotto davanti al caffè e leggeva un libro. Albèrt nella stanza attigua non si moveva ancora. Zachàr aprì cautamente l'uscio e guardò in sala da pranzo.
- Lo credete, Dmitri Ivànovic'? dorme sul nudo divano! Non ha voluto stenderci sopra niente, in fede mia. E' come un bimbo piccino. Davvero, un artista!
Verso le dodici si udì dietro l'uscio un gemere e tossire. Zachàr andò di nuovo in sala da pranzo e il padrone sentì la voce carezzevole di Zachàr e la voce debole, implorante di Albèrt.
- Be', che c'è? - domandò il padrone a Zachàr, quando uscì.
- Si annoia, Dmitri Ivànovic'; non si vuole lavare, è così tetro. Chiede sempre da bere.
«No, se ti ci sei messo, bisogna tener duro» si disse Delesov. E, senza aver ordinato di dargli del vino, si rimise a leggere il libro, tendendo però involontariamente l'orecchio a ciò che avveniva nella sala da pranzo. Là nulla si moveva, solo ogni tanto si udiva una tosse penosa di petto e un rumore di sputi. Passarono un paio d'ore. Delesov, vestitosi, prima di uscir di casa, risolse di dare un'occhiata al suo ospite. Albèrt era seduto immobile presso la finestra, col capo reclinato sulle mani. Egli si volse. La sua faccia era gialla, corrugata e non solo triste, ma profondamente infelice. Egli provò a sorridere in segno di saluto, ma il suo volto assunse un'espressione anche più afflitta. Pareva sul punto di mettersi a piangere. A fatica si alzò e s'inchinò.
- Se si potesse bere un bicchierino di semplice vodca - disse con aria supplichevole - io sono così debole... per favore!
- Il caffè vi ristorerà meglio. Ve lo consiglierei.
Il volto di Albèrt perdette a un tratto la sua espressione infantile; egli guardò dalla finestra con occhi freddi, senza luce e si lasciò andare fiaccamente sopra la sedia.
- O che non vorreste far colazione?
- No, grazie, non ho appetito.
- Se avrete voglia di sonare il violino, non mi disturberete - disse Delesov, posando il violino sulla tavola. Albèrt guardò il violino con un sorriso sprezzante.
- No, son troppo debole, non posso sonare - disse, e scostò da sé lo strumento.
Dopo di ciò, qualunque cosa dicesse Delesov, proponendogli di fare due passi e di andare la sera a teatro, egli s'inchinava solo umilmente e taceva con ostinazione. Delesov se ne andò di casa, fece alcune visite, pranzò da conoscenti e, prima di andare a teatro, passò a casa per cambiarsi e sapere che cosa facesse il musicante. Albèrt era seduto nell'anticamera buia e, col capo appoggiato sulle mani, guardava la stufa che si andava accendendo. Era vestito decentemente, lavato e pettinato; ma i suoi occhi erano foschi, senza vita e tutta la sua figura esprimeva debolezza ed estenuazione ancora più che la mattina.
- Ebbene, avete pranzato, signor Albèrt? - domandò Delesov.
Albèrt fece un cenno affermativo col capo e, gettato uno sguardo in viso a Delesov, abbassò gli occhi spaurito. Delesov si sentì a disagio.
- Ho parlato oggi di voi al direttore - disse, anch'egli abbassando gli occhi. - E' lietissimo di assumervi, se permetterete che vi senta.
- Vi ringrazio, ma non posso sonare - disse Albèrt fra i denti, e se ne andò nella sua stanza, chiudendosi l'uscio dietro in modo particolarmente silenzioso.
Di lì a qualche minuto la maniglia dell'uscio girò altrettanto silenziosamente ed egli uscì dalla sua stanza col violino. Gettato uno sguardo rabbioso e fugace a Delesov, posò il violino su una sedia e sparì di nuovo. Delesov si strinse nelle spalle e sorrise. «Che ho da fare di più? che colpa ci ho io?» pensò.
- Be', che fa il musicante? - fu la sua prima domanda, quando sul tardi tornò a casa.
- Va male! - rispose brevemente Zachàr, con voce sonora. - Sospira sempre, tossisce e non dice niente, solo si è messo un cinque volte a chieder vodca. Glie ne ho dato un bicchierino. Se no a questo modo lo potremmo rovinare, Dmitri Ivànovic'. Proprio così il fattore...
- E il violino non lo suona?
- Non lo tocca nemmeno. Anch'io gliel'ho portato un paio di volte: lo prende alla chetichella e lo riporta fuori - rispose Zachàr con un sorriso. - Così non ordinate di dargli da bere?
- No, aspettiamo ancora un giorno, vedremo quel che sarà. E adesso che fa?
- Si è chiuso nel salotto.
Delesov se ne andò nello studio, scelse alcuni libri francesi e un Vangelo in tedesco.
- Domani mettigli questo nella stanza, e bada, non lasciarlo uscire - disse a Zachàr.
La mattina dopo Zachàr riferì al padrone che il musicante non aveva dormito per tutta la notte: aveva sempre camminato per le stanze ed era venuto nella dispensa, tentando di aprire l'armadio e l'uscio, ma che tutto, mercé le sue cure, era stato messo sotto chiave. Zachàr raccontò che, fingendosi addormentato, aveva udito Albèrt borbottare qualcosa tra sé e sé nell'oscurità e agitare le braccia.
Albèrt diveniva ogni giorno più tetro e più taciturno. Di Delesov pareva che avesse timore e il suo viso esprimeva un morboso spavento, quando i loro occhi si incontravano. Non prendeva in mano né i libri né il violino e non rispondeva alle domande che gli si facevano.
Il terzo giorno della presenza del musicante presso di lui, Delesov tornò a casa a sera tarda, stanco e scombuiato. Per tutta la giornata era andato attorno, aveva brigato per una faccenda che sembrava molto semplice e facile e, come spesso succede, egli non aveva fatto proprio nemmeno un passo avanti, nonostante i suoi intensi sforzi. Oltre a ciò, essendo passato al circolo, aveva perduto al "whist". Era di cattivo umore.
- Be', che Dio l'abbia in gloria! - rispose a Zachàr, che gli aveva spiegato la triste condizione di Albèrt. - Domani mi farò dire da lui definitivamente se vuole o no rimanere in casa mia e seguire i miei consigli. Se non vuole, pazienza! Mi pare di aver fatto tutto ciò che potevo.
«Ecco, va' a far del bene alla gente! - pensava tra sé. - Io per lui sto a disagio, mi tengo in casa quest'essere sudicio, tanto che la mattina non posso ricevere una persona sconosciuta, mi do da fare, corro, e lui mi guarda come non so qual malfattore che per proprio piacere l'abbia chiuso in gabbia. E, soprattutto, per se stesso non vuol muovere nemmeno un passo. Così son tutti (questo 'tutti' si riferiva in generale agli uomini e in particolare a quelli coi quali aveva avuto da fare quel giorno). E che si fa di lui adesso? A che cosa pensa e che cosa sospira? La depravazione da cui l'ho strappato? L'avvilimento in cui era? La miseria dalla quale l'ho salvato? Si vede, è ormai caduto così in basso che gli è penoso guardare in faccia una vita onesta...»
«No, è stata un'azione puerile - concluse tra sé Delesov. - Come mi posso incaricare di correggere altri, quando è grazia che me la cavi con me stesso?» Voleva già lasciarlo andar via subito, ma, avendoci pensato un poco, rimandò al giorno seguente.
Nella notte destarono Delesov il rumore di un tavolino caduto nell'anticamera e un vocio e calpestio. Accese una candela e, meravigliato, si mise in ascolto...
- Aspettate un momento, io lo dirò a Dmitri Ivànovic' - diceva Zachàr; la voce di Albèrt borbottava qualcosa con ardore e in modo sconnesso. Delesov balzò su e corse con la candela in anticamera. Zachàr, in camicia da notte, stava in piedi contro la porta, Albèrt, col cappello e l'almaviva indosso, cercava di spingerlo via dalla porta e inveiva contro di lui con voce piagnucolosa:
- Voi non potete non lasciarmi andare! Io ho il passaporto, io non vi ho portato via niente! Mi potete perquisire! Andrò dal capo della polizia!
- Permettete, Dmitri Ivànovic'! - si rivolse Zachàr al padrone, continuando a difendere la porta col dorso. - Si è alzato di notte, ha trovato la chiave nel mio pastrano e ha bevuto un'intera caraffa di vodca dolce. E' forse bene? E adesso vuole andar via. Voi l'avete proibito, perciò io non posso lasciarlo andare.
Albèrt, veduto Delesov, si avanzò verso Zachàr con anche più foga.
- Nessuno mi può trattenere! nessuno ne ha il diritto! - gridava, alzando sempre più la voce.
- Scostati, Zachàr - disse Delesov. - Io non vi voglio e non vi posso trattenere, ma vi consiglierei di restare fino a domani - si rivolse ad Albèrt.
- Nessuno mi può trattenere! Andrò dal capo della polizia! - gridava sempre più forte Albèrt, rivolgendosi soltanto a Zachàr e senza guardare Delesov. - Aiuto! - urlò a un tratto con voce furiosa.
- Ma perché gridate così? non vi si trattiene mica - disse Zachàr, aprendo la porta.
Albèrt smise di gridare. «Non vi è riuscito? Volevate farmi morire. No!» borbottava tra sé, infilando le calosce. Senza salutare e continuando a dire qualcosa d'incomprensibile, varcò la porta. Zachàr gli fece lume fino al portone e tornò indietro.
- E sia lodato Dio, Dmitri Ivànovic'! O che ci vuol molto a far succedere un guaio? - disse al padrone - e adesso bisogna verificare l'argenteria.
Delesov scosse soltanto il capo e non rispose nulla. Rammentò ora vivamente le due prime sere che aveva trascorso col musicante, rammentò le tristi giornate che per colpa sua aveva passato lì Albèrt, e soprattutto ricordò quel dolce sentimento misto di meraviglia, di amore e di compassione che aveva destato in lui fin dal primo sguardo quell'uomo strano, e ne sentì pietà. «E che mai sarà di lui, ora? - pensò. - Senza denaro, senza vestito pesante, solo in mezzo alla notte...» Voleva già quasi mandargli dietro Zachàr, ma ormai era tardi.
- E fa freddo fuori? - domandò Delesov.
- C'è un gelo gagliardo, Dmitri Ivànovic' - rispose Zachàr. - Mi son dimenticato d'informarvi che prima della primavera toccherà comprare altra legna.
- E come mai dicevi che ne sarebbe avanzata?


7.
Fuori in realtà faceva freddo, ma il freddo Albèrt non lo sentiva: tanto era accalorato per la vodca bevuta e la discussione. Uscito sulla via, si guardò indietro e si fregò con gioia le mani. La via era deserta, ma la lunga fila dei lampioni brillava ancora coi suoi lumi rossi, il cielo era sereno e stellato. «E che?» disse egli, rivolgendosi alla finestra illuminata dell'appartamento di Delesov, e, ficcate le mani sotto il pastrano nelle tasche dei calzoni e piegatosi in avanti, Albèrt a passi pesanti e malfermi si avviò a destra per la via. Sentiva nelle gambe e nello stomaco un peso straordinario, nella sua testa c'era un ronzio, una qualche forza invisibile lo gettava da una parte all'altra, ma egli andava sempre avanti in direzione della casa di Anna Ivànovna. Nella testa gli erravano strani, sconnessi pensieri. Ora si ricordava dell'ultima discussione con Zachàr, ora, chi sa perché, del mare e del suo primo arrivo col piroscafo in Russia, ora della notte felice trascorsa con un amico in una botteguccia davanti alla quale passava; ora d'improvviso un motivo noto cominciava a cantargli nell'immaginazione ed egli rammentava l'oggetto della sua passione e la terribile notte in teatro. Ma, nonostante che fossero slegati, tutti questi ricordi si presentavano alla sua mente con tal vivezza che egli, chiusi gli occhi, non sapeva che cosa fosse più reale: quello che stava facendo o quello che pensava. Non aveva presente e non sentiva come si spostassero i suoi piedi, come, barcollando, urtasse contro un muro, come si guardasse in giro e passasse da una via all'altra. Aveva presente e sentiva solo ciò che, bizzarramente avvicendandosi e ingarbugliandosi, gli si affacciava alla mente.
Passando per la Piccola Morskaia, Albèrt inciampò e cadde. Riavutosi per un attimo, scorse davanti a sé non so quale enorme, magnifico edificio e andò oltre. In cielo non si vedevano più né stelle, né aurora, né luna, anche lampioni accesi non ce n'erano, ma tutti gli oggetti si delineavano chiaramente. Alle finestre dell'edificio, che si innalzava in fondo alla via, brillavano lumi, ma questi lumi oscillavano, come un riflesso. L'edificio cresceva davanti ad Albèrt, sempre più vicino e sempre più chiaro. Ma i lumi scomparvero, appena Albèrt entrò in un'ampia porta. Nell'interno era buio. I passi solitari echeggiavano sonori sotto le volte e non so che ombre, guizzando, fuggivano via al suo avvicinarsi. «Perché son venuto qui?» pensò Albèrt; ma una c'erta forza irresistibile lo trascinava innanzi verso le profondità di un'immensa sala... Là c'era una specie di rialzo, e attorno a quello stavano in silenzio certi piccoli uomini. «Chi mai parlerà?» domandò Albèrt. Nessuno rispose, solo uno di essi gli indicò il rialzo. Sopra il rialzo già stava ritto un uomo alto e magro coi capelli ispidi, in una veste da camera variopinta. Albèrt riconobbe subito il suo amico Petròv. «Com'è strano ch'egli sia qui!» pensò Albèrt. «No, fratelli - diceva Petròv, additando qualcuno. - Voi non avete compreso l'uomo che viveva fra voi; non lo avete compreso! Egli non è un artista venale, non un esecutore meccanico, non un pazzo, non un uomo perduto. E' un genio, un gran genio musicale, che si è rovinato in mezzo a voi, non notato e non apprezzato.» Albèrt capì subito di chi parlasse il suo amico; ma, desiderando non dargli soggezione, per modestia abbassò il capo. «Egli, come una pagliuzza, fu consumato tutto da quel sacro fuoco che noi tutti serviamo - proseguì la voce - ma ha compiuto quanto gli era stato commesso da Dio; per questo deve essere chiamato un grand'uomo. Voi l'avete potuto disprezzare, far soffrire, umiliare - continuò la voce sempre più forte - ma egli è stato, è e sarà senza confronto superiore a voi tutti. Egli è felice, egli è buono. Egli ama o disprezza tutti ugualmente, il che è lo stesso, ma serve solo ciò che in lui fu posto dall'alto. Ama una cosa sola: la bellezza, l'unico non dubbio bene del mondo. Sì, ecco chi è! Prosternatevi tutti davanti a lui, in ginocchio!» si mise a gridar forte.
Ma un'altra voce prese a parlar piano dall'angolo opposto della sala. «Io non voglio cadere dinanzi a lui in ginocchio - diceva la voce, nella quale Albèrt subito riconobbe quella di Delesov.
- Per che cosa è grande? E perché ci dobbiamo inchinare a lui? Forse che si è condotto secondo onestà e giustizia? Forse che ha recato qualche utile alla società? Non sappiamo forse che prendeva denaro in prestito e non lo restituiva, che portò via il violino a un artista suo compagno e lo impegnò?... ('Dio mio, come sa tutto!' pensò Albèrt, chinando ancor più basso il capo.) Forse che non sappiamo come adulasse gli uomini più dappoco, e li adulasse per denaro? - continuò Delesov. - Non sappiamo come lo cacciarono dal teatro? Come Anna Ivànovna lo voleva spedire all'ufficio di polizia?» ('Dio mio! tutto questo è vero, ma difendimi - proferì Albèrt - tu solo sai perché feci questo'.)
«Smettete, vergognatevi - riprese a dire la voce di Petròv. - Che diritto avete voi di accusarlo? Forse che avete vissuto la sua vita? avete provato le sue estasi? ('E' vero, è vero!' mormorava Albèrt.) L'arte è la suprema manifestazione di potenza nell'uomo. Essa è data a pochi eletti e solleva l'eletto a un'altezza alla quale la testa è presa da vertigine ed è difficile mantenersi savi. Nell'arte, come in ogni lotta, ci sono gli eroi che tutto han dato alla loro causa e sono periti senza aver raggiunto la meta.»
Petròv tacque e Albèrt sollevò il capo e si mise a gridar forte: «E' vero! è vero!». Ma la sua voce dileguò senza suono.
«Non riguarda voi questa faccenda - si rivolse a lui severamente l'artista Petròv. - Sì, umiliatelo, disprezzatelo - continuò - ma fra noi tutti egli è il migliore e il più felice!»
Albèrt, che con la beatitudine in cuore aveva ascoltato queste parole, non resse più, si avvicinò all'amico e lo voleva baciare. «Vattene, io non ti conosco - rispose Petròv - fa' la tua strada, se no non arriverai...»
- Ve', hai preso la sbornia! non arriverai - gli gridò il vigile a un crocicchio.
Albèrt si fermò, raccolse tutte le forze e, cercando di non barcollare, svoltò in una via laterale.
Per giungere da Anna Ivànovna restavan pochi passi. Dall'androne di casa sua la luce cadeva sulla neve del cortile e davanti al portello stavano slitte e carrozze.
Afferrandosi con le mani intirizzite alla ringhiera, egli corse su per la scala e sonò.
Il viso assonnato della donna di servizio si affacciò nello spiraglio della porta e gettò uno sguardo adirato ad Albèrt. «Non si può! - gridò - ho l'ordine di non lasciarvi entrare», e sbatté la porta. Sulla scala giungevano i suoni di una musica e di voci femminili. Albèrt sedette per terra, appoggiò la testa al muro e chiuse gli occhi. Nello stesso istante folle di visioni incoerenti, ma familiari lo circondarono con nuova forza, lo presero nelle loro onde e lo portarono chi sa dove lassù, nella libera e bellissima regione delle fantasticherie. «Sì, egli è il migliore e il più felice!» ripeteva involontariamente la sua immaginazione. Dalla porta si udivano le note di una polca. Anche queste note dicevano ch'egli era il migliore e il più felice! Dalla prossima chiesa giungeva uno scampanio, e quello scampanio diceva: «Sì, è il migliore e il più felice». «Ma andrò di nuovo in quella sala - pensò Albèrt. - Petròv deve ancora dirmi molte, molte cose.» Nella sala non c'era più nessuno e, invece dell'artista Petròv, stava sul rialzo Albèrt in persona e in persona sonava sul violino tutto ciò che prima aveva detto la voce. Ma il violino era di una strana costruzione: era fatto interamente di vetro. E bisognava cingerlo con tutt'e due le mani e lentamente serrarlo al petto, perché emettesse dei suoni. I suoni erano così delicati e incantevoli come Albèrt non ne aveva uditi mai. Quanto più forte stringeva al petto il violino, tanto più conforto e dolcezza provava. Quanto più alti si facevano i suoni, tanto più rapidamente si dissipavano le ombre e maggiormente le pareti della sala si illuminavano di una diafana luce. Ma bisognava sonare il violino con molta cautela, per non schiacciarlo. Albèrt sonava il vitreo strumento con gran precauzione e assai bene. Sonava certe cose che, egli lo sentiva, nessuno avrebbe udito mai più. Già cominciava a essere stanco, quando un altro suono, lontano e sordo, lo distrasse. Era il suono di una campana, ma essa con quel suono pronunziava la parola «sì»; diceva la campana, rintronando in qualche luogo alto e lontano: «Egli vi sembra degno di pietà, voi lo disprezzate, ma lui è il migliore e il più felice! Nessuno sonerà mai più questo strumento».
Queste note parole parvero improvvisamente ad Albèrt così intelligenti, così nuove e giuste che smise di sonare e, cercando di non muoversi, levò le braccia e gli occhi al cielo. Si sentiva bello e felice. Benché nella sala non ci fosse alcuno, Albèrt aveva raddrizzato il petto e, sollevato orgogliosamente il capo, stava sul rialzo in modo che tutti lo potessero vedere. A un tratto la mano di qualcuno gli toccò lievemente la spalla; egli si volse e nella penombra scorse una donna. Ella lo guardava con tristezza e crollò il capo negativamente. Egli capì subito che quel che stava facendo era male e si vergognò di se stesso. «Dove andare dunque?» le domandò. Ella lo guardò ancora una volta fisso, a lungo, e chinò tristemente il capo. Era quella, assolutamente quella che egli amava, anche il suo vestito era quello, sul collo bianco e pienotto c'era un filo di perle e le incantevoli braccia erano scoperte fin sopra il gomito. Ella lo prese per mano e lo condusse via dalla sala. «L'uscita è da quella parte», disse Albèrt; ma ella, senza rispondere, sorrise e lo accompagnò fuori. Sulla soglia della sala Albèrt vide la luna e dell'acqua. Ma l'acqua non era in basso, com'è di solito, e la luna non era in alto - un disco bianco, fermo in un punto - com'è di solito. La luna e l'acqua erano insieme e dappertutto: in alto, in basso, di fianco e attorno a loro due. Albèrt insieme con lei si gettò nella luna e nell'acqua e capì che ora poteva abbracciare quella che amava più di tutto al mondo; l'abbracciò e provò un'intollerabile felicità. «Non sarà già in sogno questo?» si domandò. Ma no! Quella era realtà, era più che realtà: era realtà e ricordo. Sentiva che l'inesprimibile felicità di cui godeva in quel momento era passata e non sarebbe tornata mai più. «Di che piango dunque?» le domandò. Ella lo guardò in silenzio, tristemente. Albèrt capì quel ch'ella voleva dire con ciò. «Ma come mai, se sono vivo?» proferì. Ella, senza rispondere, guardava immobile davanti a sé. «Questo è orribile! Come spiegarle che sono vivo? - pensò con terrore. - Dio mio! ma sono vivo, capitemi!» mormorava.
«Egli è il migliore e il più felice», diceva la voce. Ma qualcosa opprimeva Albèrt sempre più forte. Se fosse la luna e l'acqua, gli abbracci di lei o le lacrime, egli non sapeva, ma sentiva che non avrebbe potuto dire tutto ciò che occorreva e che presto tutto sarebbe finito.
Due ospiti che uscivano dalla casa di Anna Ivànovna urtarono in Albèrt, disteso sulla soglia. Uno di essi tornò indietro e chiamò la padrona.
- Ma questa è un'empietà - disse - a questo modo potevate far gelare una persona.
- Ah, di questo Albèrt sono stufa: ecco dove se ne sta - rispose la padrona. - Annushka! mettetelo in una stanza, in qualche posto - si rivolse alla donna di servizio.
- Ma io sono vivo, perché seppellirmi? - borbottava Albèrt, mentre lo portavano, privo di sensi, nelle stanze.

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