Un giorno di primavera un giovane pittore americano di
nome Tom Corey pedalava "veloce come il vento" su una
bicicletta da corsa giallo canarino sotto gli alti pini di Villa
Borghese a Roma. Il cielo era (naturalmente) azzurro, però
più celeste che azzurro con nubi e al centro delle nubi
una sfumatura grigia e dentro la sfumatura grigia un piumino
rosa come di cipria. Tom (naturalmente, anche lui)
portava scarpe da tennis, blue-jeans e una ventosa camicia
rossa amaranto di seta lucida con larghi e grassi fiori blu
dipinti a mano, comprata per un dollaro in un magazzino
di stracci cinesi alla Quarantaduesima Strada di New
York.
Era biondo, aveva occhi celesti, era magro e non
troppo alto e simile a un ballerino. Pedalava come un ragazzo,
con foga ed era già tutto rosso in faccia, un po' sudato,
così emanava un odore di pane crudo lievitato e
pronto per essere messo al forno.
Correndo attraversava zone d'ombra un po' cupe, coperte
di vegetazione nerastra e umida da cui occhieggiava
il tufo e anche il muschio, e in quelle zone si rinfrescava
del sole ventosino ma scottante che gli batteva in piena
faccia in altre zone aperte. Rideva o sorrideva, mostrando
i bei denti bianchi di cane con qualche guizzo di saliva e
di luce e qualche volta socchiudeva gli occhi, frenava l'andatura
"a razzo" o addirittura si fermava e, sempre con gli
occhi socchiusi, guardava: una statua, una fontana, un
prato sotto gli ombrelli dei pini, la luce che filtrava e i differenti
toni di verde, dal verde pisello al grigio, del prato
sottostante.
Si fermò a lungo sotto la casa di Raffaello, indeciso, con
la punta di un piede per terra, immobile e teso con gli oc386
Goffredo Parise
chi sempre più socchiusi e mordendosi i baffetti: poi riprese
la corsa ma soprappensiero, in discesa, costeggiando
piazza di Siena. Lo sguardo volò dentro quel catino in ombra,
si fermò, appoggiò la bicicletta gialla contro una siepe
(la bicicletta affondò dentro l'oscurità verdastra), levò da
dietro il sellino una cartella e una scatoletta di legno e con
questi oggetti di scolaro sotto il braccio e in mano fece pochi
passi fino a sovrastare l'ampia conca del maneggio.
Qui si sedette sul muro, appoggiò la cartella, ne levò un
foglio di carta gialla da macellaio che distese sulla cartella:
la fissò con due mollette di lato e aprì la scatola dei pastelli,
piccoli e ridotti a tanti pezzi.
Inutile dire che anche Tom, come tutti coloro che sono
belli, giovani, e appartenenti a una grande e ricca famiglia
o a un grande e ricco paese, era povero ma felice. Egli, come
tutte le persone felici, sapeva a malapena di essere povero
e non sapeva affatto di essere felice. Mangiava sì e
no una volta al giorno, dormiva in un buco della suburra
circondato da vecchi muri romani grondanti sangue e morte
(ma egli, giustamente, scambiava sangue e morte per
storia) e spesso, alla sera, ballava dei boogie e dei rock con
certe ragazze negre di New York (indossatrici) emanando
quell'odore di pane, trattandole come puro materiale ritmico
ed esse erano ben felici di farsi trattare così.
Parlava qualche parola di italiano, ma pochissime e con
una stupita grazia miagolante che completava il lessico.
Era pittore di paesaggi e di interni e ogni giorno con la
sua bicicletta giallo canarino usciva per Roma o entrava
nei palazzi con i suoi piccolissimi gessi: stava lì un'ora, anche
due se non cambiava troppo la luce, ma se la luce mutava
e non era più così felice o così infelice come la sua felicità
voleva che fosse se ne andava dopo un quarto d'ora;
tornava il giorno dopo quando il sole era alto oppure radente.
Gli piaceva trovare il colore delle cose che passano, soprattutto
in quei momenti di luce infelice al mattino,
quando il sole è alle spalle, non ha ancora scaldato i muri,
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gli alberi e i prati e tutto è ancora avvolto da qualche cosa
di diurno che però appartiene più alla notte che al giorno.
Quella totale mancanza di luce diretta, o quella lampeggiante
o radente durava poco, ecco la ragione per cui andava
e veniva. Allora non soltanto la carta gialla da macellaio
su cui sfregava i gessi assorbiva quell'umidità e quel
freddo ma anche la sua pelle e i suoi muscoli, e tutto ciò
veniva reciprocamente trasmesso dalla carta ai muscoli e
dai muscoli alla carta.
Quel giorno di primavera e il luogo scelto erano uno di
questi. Tom lavorava svelto e un po' corrucciato e miope,
alzando gli occhi aspettava che una di quelle nubi bianche
grigie e rosa passasse sul sole. Siccome le nubi correvano
questo accadeva spesso e Tom lavorava più svelto con i
suoi gessetti abbassando gli occhi fino al foglio.
Poco distante da lui stava seduta su un seggiolino pieghevole
una donna non vecchia ma quasi vecchia, con le
gambe tutte fasciate da grosse calze elastiche grigio rosate
che le stringevano, vicino alla donna due giovanotti stavano
appoggiati ad una macchina blu senza parlare e fumando.
Uno di loro aveva una rivoltella infilata nella cintura.
La donna osservava Tom che dipingeva, lo sbirciava
ogni tanto e sempre più spesso con moltissima curiosità e
con quella sorta di indiscrezione innocente che hanno sia i
vecchi che i bambini. Nel frattempo pensava a certe vicende
politiche italiane di cui era stata non soltanto protagonista
(si trattava di un senatore) ma anche testimone. Il
corpo della donna era forte e grosso come le gambe fasciate
ma non grasso, come quello di una contadina, e come
una contadina molto pulita e a posto era vestita e anche
pettinata. Anche il volto era di una contadina ma, a differenza
di una contadina quale doveva essere stata, il volto
era offuscato da qualche cosa, qualche cosa che doveva esserci
stato un tempo non lontano, qualche cosa di rettili388
Goffredo Parise
neo e di crudele che si vede nei volti delle suore anziane
che comandano.
Tuttavia la donna guardava Tom come se egli avesse o
mostrasse nel modo di muoversi e di essere e di sfregare i
gessetti sulla carta una cosa che lei non conosceva, non
aveva visto mai nella sua vita. Si alzò molto lentamente
dalla seggiolina pieghevole, aveva un bastoncino nero e
sottile con il manico curvo, a cui si appoggiò. I suoi piedi
erano grossi, bitorzoluti e incerti dentro scarpe nere che
parevano fatte apposta, si avvicinò a Tom e guardò attentamente
prima lui da vicino, poi quello che stava facendo.
Per un istante Tom fu distratto da un passero che si appoggiò
a un angolo della cartella allargando e chiudendo le
ali come un ombrellino e la donna approfittò di questo
momento per dire: « Non la disturbo? ».
Tom ebbe un piccolo soprassalto, guardò dietro di sé la
signora e in quel suo modo un po' miagolante e ridendo,
allargando le braccia, le mani e le dita in un gesto di benvenuto,
nervoso e timido, come volesse abbracciarla, e anche
arrossendo, disse:
« Oh, no, prego. » Fece una pausa e disse ancora
« prego ».
« Lei è un artista, un pittore » disse la donna e rivelò
una voce bella, un po' maschile.
« Sì » disse Tom e arrossì un'altra volta.
« Un pittore straniero? »
« Americano » disse Tom.
« Ah, americano » aggiunse la donna e piegò lievemente
il capo in modo gentile e come rispettoso. Ci fu una pausa
durante la quale Tom non sapeva che cosa dire essendo
sempre la donna in piedi e non trovava in quel momento
le parole in italiano per aggiungere qualche cosa alla conversazione
appena iniziata. Ma la donna, forzando la sua
voce lenta e autoritaria ad essere il più gentile possibile
disse «buongiorno » e si allontanò verso l'automobile blu.
I due giovanotti l'aiutarono a salire e l'automobile partì
lentamente.
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Passarono i mesi, Tom non rivide più la donna con le
gambe fasciate e la dimenticò completamente, non così la
donna che di tanto in tanto passando con la macchina e le
due guardie del corpo per le sue passeggiate a Villa Borghese
lo intravedeva dal finestrino. Dava ordine di rallentare,
guardava un momento, poi l'auto ripartiva silenziosa
verso il Senato. Nonostante la malattia e l'età la donna
era considerata sempre battagliera: non più come una volta
ma rappresentava, come spesso succede in Italia, una figura
di definitivo prestigio politico. Tom questo non lo
sapeva e probabilmente non lo avrebbe saputo mai, tanto
lontana era la sua vita, da quella politica italiana.
Ma la donna ricordava Tom e il suo ricordo era sempre
legato a qualche cosa che l'aveva attratta in modo quasi
scandaloso, così pensava tra sé, ma purtroppo impossibile
da capire tanto che spesso se lo chiedeva senza ottenere
nessuna risposta. Le venne in aiuto alcuni anni dopo una
intervistatrice, giornalista di un mensile femminile che,
tra le altre, le pose la seguente domanda: « Senatrice, come
definirebbe la libertà? Rosa Luxemburg... ».
« Lo so, lo so... » interruppe la donna, sorrise "politicamente"
e alzò leggermente la mano. Il sorriso scomparve,
la sua voce tornò un po' maschile.
« La libertà è il sociali... » e qui si interruppe un istante.
"La libertà è un pittore americano a Villa Borghese"
avrebbe voluto dire. Fini la frase: « ...il socialismo, il nostro
socialismo ».
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