UNA CENA MOLTO ORIGINALE.
"Dimmi cosa mangi, ti dirò chi sei".
Qualcuno.
1.
Fu durante la quindicesima sessione annuale della Società di Gastronomia di Berlino che il Presidente, Herr Prosit, fece il famoso invito ai suoi membri. La sessione era naturalmente un banchetto. Durante il dessert nacque un'accesa discussione sull'originalità dell'arte culinaria. Era un cattivo momento per tutte le arti. L'originalità era in declino. Anche nella gastronomia c'erano un declino e un indebolimento. Tutti i prodotti della cucina che si definivano 'nuovi' non erano altro che varianti di piatti già noti. Una salsa diversa, un modo lievemente diverso di condire o insaporire - in questo differiva il piatto nuovo da quello tradizionale. Non vi erano vere e proprie novità, ma solo innovazioni. Tutte queste cose furono deplorate unanimemente al banchetto, con una varietà di toni e diversi gradi di veemenza.
Mentre si discuteva con calore e convinzione vi era tra noi un uomo che, sebbene non fosse l'unico a tacere, era tuttavia l'uomo il cui silenzio maggiormente si notava, perché da lui più che da ogni altro ci si poteva aspettare un intervento. Quest'uomo era naturalmente Herr Prosit, presidente della Società e anche di questa riunione. Herr Prosit era l'unico uomo che non partecipasse alla discussione - egli stava in silenzio più che disattento. Si sentiva la mancanza dell'autorità della sua voce. Era pensieroso - lui, Prosit, stava in silenzio - lui, Prosit, appariva serio - lui, Wilhelm Prosit, presidente della Società di Gastronomia.
Il silenzio di Herr Prosit era per la maggior parte degli uomini una cosa rara. Egli somigliava (mi si conceda il paragone) a un uragano. Il silenzio non gli era congeniale. Lo stare cheto non era una prerogativa del suo temperamento. E come una tempesta (per seguire la similitudine), se qualche volta si manteneva silenzioso questo avveniva solo come una pausa e un preludio alla più grande delle esplosioni. Questa era l'opinione che si aveva di lui.
Il Presidente era un uomo per molti aspetti eccezionale. Era un uomo allegro e affabile, ma lo era con una vivacità eccessiva, con una esuberanza nel comportamento che rivelava una costante artificiosità di attitudine. La sua socievolezza sembrava patologica; la sua facezia e i suoi scherzi, pur non essendo in alcun modo forzati, sembravano imposti dall'interno da una facoltà dello spirito che non è quella dell'arguzia. Il suo umore sembrava manierato, la sua irrequietudine naturalmente posticcia.
In compagnia dei suoi amici - e ne aveva molti - manteneva una corrente continua di ilarità, era tutto gioia e riso. Eppure è sorprendente come questo strano uomo non mostrasse, nella sua espressione abituale, una manifestazione di allegria o di gioia. Quando smetteva di ridere, quando dimenticava di sorridere, per il contrasto che il suo viso tradiva, sembrava cadere in una serietà innaturale, come qualcosa di simile al dolore.
Se questo fosse dovuto alla fondamentale tristezza del suo carattere, o alle pene della sua vita passata, o a qualsiasi altro male del suo spirito - io che riferisco questo, difficilmente potrei presumere di affermarlo. Inoltre, questa contraddizione del suo carattere o almeno delle sue manifestazioni era notata solo da chi l'osservasse, gli altri non la vedevano, né vi era alcuna necessità che lo facessero.
Come in una notte di bufere in cui si susseguono le une alle altre, ma a intervalli, colui che ne è testimone considera l'intera notte una notte di tempesta, dimenticando gli intervalli tra i momenti più violenti e attribuendo alla notte la caratteristica che lo ha colpito di più; così seguendo un'inclinazione dell'animo umano, si diceva che Prosit fosse un uomo allegro, perché ciò che più colpiva in lui era l'allegria fragorosa, la sua gioia rumorosa. Nella tempesta il testimone dimenticava il profondo silenzio degli intervalli. Di quest'uomo dimenticavamo facilmente, per il suo riso selvaggio, il silenzio triste, la cupa pesantezza degli intervalli della sua natura sociale.
Il volto del Presidente, ripeto, aveva questa contraddizione e la tradiva. Quel viso sorridente mancava di animazione. Il suo eterno sorriso sembrava la smorfia grottesca di coloro nei cui visi picchia il sole; là una naturale contrazione dei muscoli dinanzi a una luce forte; qui una espressione estremamente innaturale e grottesca.
Era voce comune (tra coloro che lo conoscevano) che si fosse dato a una vita spensierata per sfuggire a una specie di malattia nervosa ereditaria o, tutt'al più, a uno stato patologico, poiché era figlio di un epilettico e aveva avuto tra gli antenati, per non menzionare molti dei casi più stravaganti, parecchi di inequivocabili nevrotici. Egli stesso avrebbe potuto essere affetto da malattia nervosa. Ma non posso parlarne con assoluta certezza.
Quello che posso dare come verità inconfutabile è che Prosit era stato introdotto nella società di cui parlo da un giovane ufficiale, anche lui amico mio, un tipo allegro che lo aveva conosciuto chissà dove e aveva trovato irresistibili i suoi scherzi.
Questa società - quella di cui Prosit entrò a far parte - era, a dire il vero, una di quelle dubbie e non rare società eccentriche che sono formate da elementi di alto rango e di basso rango in una curiosa sintesi, simile a una trasformazione chimica, per cui i componenti vengono ad acquisire una nuova peculiare caratteristica, diversa dalla loro natura originaria. Questa era una società le cui arti - perché arti devono chiamarsi - erano quelle di mangiare, bere e fare all'amore. Era artistica indubbiamente. Era volgare, ancor più indubbiamente. E coniugava questi elementi senza disarmonia.
Di questo gruppo di persone, socialmente inutili, umanamente corrotte, Prosit era il capo, perché era il più volgare di tutti. Non posso ovviamente penetrare nella psicologia semplice e insieme intricata di questo caso. Non so spiegare, qui, la ragione per cui il capo di una simile società fosse stato scelto tra gli iscritti di rango più basso. In tutta la letteratura molto acume, molto intuito sono stati spesi in enigmi di questo tipo. Si tratta di casi che hanno un'origine indubbiamente patologica. Poe ha dato ai complessi sentimenti che li ispirano, credendoli uno solo, il nome generico di 'perversità', ma per non divagare vorrei limitarmi al caso in questione. L'elemento femminile della società è venuto, convenzionalmente parlando, dal basso, l'elemento maschile dall'alto. Il pilastro di questa intesa, il tratto d'unione di questo composto - anzi, meglio, l'agente catalitico di questa trasformazione chimica - era il mio amico Prosit. I centri, i luoghi d'incontro della società erano due: un certo ristorante o il rispettabile hotel X, a seconda che la festa fosse una gozzoviglia spensierata, o una sobria, virile, artistica sessione della Società di Gastronomia di Berlino. Per quanto riguarda la prima, è impossibile pronunciarsi, non è possibile neppure un accenno senza rasentare l'indecenza, poiché Prosit non era volgare in modo discreto, ma in un modo abnorme e la sua influenza poteva rendere ancora più basso il livello dei più bassi desideri dei suoi amici. Quanto alla Società di Gastronomia, era migliore; diciamo che rappresentava il lato spirituale delle concrete aspirazioni del gruppo.
Ho appena detto che Prosit era volgare. E' vero, era così. La sua esuberanza era volgare, i suoi stati d'animo si manifestavano in modo triviale. Riferisco tutto ciò con obiettività; il mio fine non è scrivere encomi né calunnie, ma disegnare un personaggio nel modo più chiaro possibile e riferire con la verità che mi consente la mia più intima convinzione.
Ma Prosit era triviale, senza dubbio, perché persino nella società dove, essendo a contatto con elementi della sfera sociale elevata, era a volte costretto a vivere, non aveva perso molto della sua innata brutalità. Vi indulgeva quasi consciamente. I suoi scherzi non erano sempre inoffensivi o graditi; erano quasi tutti di cattivo gusto, per quanto a coloro che sapevano apprezzare 'il punto' di tali esibizioni, essi potessero sembrare abbastanza divertenti, spiritosi, ben congegnati.
Il migliore aspetto di questa trivialità era la sua impulsività, il suo fervore; perché il Presidente si impegnava con ardore in tutte le cose che intraprendeva, specialmente nelle imprese culinarie e nelle relazioni amorose; riguardo alle prime era un poeta del gusto, ogni giorno acquisiva ispirazione; quanto alle ultime, la sua bassezza d'animo era di infimo livello. Tuttavia il suo ardore e l'impulsività della sua allegria non si potevano mettere in dubbio. Trascinava gli altri con sé per la foga della sua energia, trasmetteva loro calore, rinvigoriva i loro impulsi senza rendersene conto. Eppure la sua foga era dedicata a lui stesso, era fine a se stessa, era una necessità organica: e non intesa a stabilire un rapporto con il mondo esteriore. Questo fervore, in realtà, non poteva reggere a lungo; ma, finché durava, la sua influenza sugli altri, anche se inconscia, era enorme.
Si noti però che, per quanto il Presidente fosse impetuoso, impulsivo e in definitiva volgare e villano, non conosceva l'ira. Nessuno riusciva a irritarlo. Inoltre era sempre pronto a rendersi gradevole, sempre pronto a evitare una discussione. Sembrava desiderare sempre che tutti andassero d'accordo con lui. Era curioso osservare come dominasse la sua ira, come la reprimesse con una fermezza che nessuno gli avrebbe sospettato, tanto meno coloro che lo conoscevano come uomo impetuoso e impulsivo.
Era soprattutto grazie a ciò, suppongo, che Prosit godeva di tanta predilezione. Infatti anche se era volgare, brutale, impulsivo, ma visto che non si comportava mai in modo scorretto con manifestazioni di collera e di aggressività, vi deponevamo le basi della nostra amicizia. Inoltre, c'era il fatto che era sempre disposto a rendersi gradevole e a essere affabile. Che fosse rozzo, tra uomini contava poco, perché il Presidente era una brava persona.
E' ovvio, dunque, che il fascino (chiamiamolo così) di Prosit consisteva in questo: nella sua capacità di non adirarsi, nel suo zelo per rendersi piacevole, nel peculiare fascino esercitato dalla sua grossolana esuberanza, forse persino, in definitiva, nella intuizione inconscia del lieve enigma che la sua personalità presentava.
Ma basta. La mia analisi della personalità di Prosit, forse esagerata nei dettagli, è tuttavia lacunosa, perché, come credo, ha omesso o tralasciato gli elementi che portano a una sintesi conclusiva. Mi sono avventurato al di là delle mie capacità. La mia comprensione non può accompagnarsi con la chiarezza che desidero. Non aggiungerò altro.
Nondimeno da ciò che ho detto una cosa almeno è chiara: l'aspetto esteriore del Presidente. E per il resto, a tutti gli effetti, Herr Prosit era un uomo allegro, uno strano individuo, è vero, ma di solito contento, che stupiva per la sua allegria, un personaggio in vista nella sua società, un uomo che aveva molti amici. Le sue caratteristiche volgari, se da una parte caratterizzavano la società nella quale viveva; se, voglio dire, creavano un ambiente, da un'altra parte passavano inosservate per eccesso di evidenza, scivolavano gradualmente nel dominio del non avvertibile, diventavano impercettibili, finivano con lo scomparire.
La cena stava per finire. La conversazione cresceva, il numero dei conversatori aumentava; e aumentava il rumore delle voci che si intrecciavano, che discutevano, che si contraddicevano. Prosit manteneva il silenzio. Il più acceso conversatore, il capitano Greiwe, teneva un tono lirico, direi. Il suo discorso verteva sulla mancanza di immaginazione (così la chiamava) che rendeva insipida la cucina moderna. Il suo entusiasmo aumentava. Nell'arte della gastronomia, osservò, erano sempre necessari nuovi piatti. Il suo modo di vedere era ovviamente limitato all'arte che conosceva. Egli sosteneva erroneamente, dava a intendere che solo nella gastronomia l'innovazione fosse di fondamentale importanza. E questo può essere stato un modo sottile per dire che la gastronomia era l'unica scienza e l'unica arte. «Arte benedetta», urlò il capitano «dove l'idea conservatrice è un'eterna rivoluzione!» «Di questa potrei dire» continuò «ciò che Schopenhauer dice del mondo: che si preserva attraverso la sua distruzione.»
«Perché, Prosit» chiese un membro dall'estremo capo della tavola, notando il silenzio del Presidente: «Perché, Prosit, non avete ancora espresso la vostra opinione? Dite qualcosa, perbacco, siete forse distratto; o malinconico? Non vi sentite bene?»
Tutti gli occhi si posarono sul Presidente. Il Presidente sorrise nel suo modo abituale, col suo solito sorriso malizioso, misterioso, mezzo corrucciato. Eppure "il suo" sorriso aveva un significato; preannunciava in qualche modo la stranezza delle sue parole.
Prosit ruppe il silenzio che si era fatto in attesa della sua risposta.
«Ho una proposta da farvi, un invito» disse. «Ho la vostra attenzione? Posso parlare?»
Appena ebbe detto queste parole, il silenzio sembrò farsi più profondo. Tutti gli sguardi si concentrarono su di lui. Ogni movimento, ogni gesto si fermò a quel punto, perché tutti furono presi dalla più grande attenzione.
«Signori», cominciò Herr Prosit «nell'invitarvi a questa cena oso sostenere che nessuno di voi ha mai partecipato a nulla di simile. Il mio invito è al medesimo tempo una sfida. Più tardi vi spiegherò.»
Ci fu una breve pausa. Nessuno si mosse, tranne Prosit, che gustava un bicchiere di vino.
«Signori», egli ripeté, in modo eloquentemente diretto «la mia sfida a tutti i presenti consiste nel fatto che fra dieci giorni offrirò una nuova sorta di cena, "una cena molto originale". Consideratevi invitati.»
Mormorii di spiegazione e domande si levarono da ogni parte. Perché quel tipo di invito? Che cosa voleva dire? Cosa significava? Perché quell'oscurità di espressione? Qual era, in altri termini, la sfida che lanciava?
«A casa mia», disse Prosit «nella piazza.»
«Bene.»
«Voi trasferirete a casa vostra il luogo di riunione della nostra società?», chiese qualcuno.
«No, sarà solo per quest'occasione.»
«E sarà una cosa davvero così originale, Prosit?», indagò ostinatamente un altro con curiosità.
«Molto originale. Una assoluta novità.»
«Bravo!»
«L'originalità della cena», disse il Presidente, parlando come se avesse riflettuto «non consiste in quello che vi appare, ma in quello che significa, in quello che contiene. Io sfido chiunque qui presente (e vorrei dire chiunque in ogni luogo), a dire, dopo aver finito, in che cosa essa è originale. Nessuno, ve lo assicuro, indovinerà. Questa è la mia sfida. Forse avrete pensato che si tratti di qualcosa per cui nessuno potrebbe offrire un banchetto più originale. Ma no, non è così. E' molto più originale. E' originale al di là delle vostre aspettative.»
«Possiamo sapere» chiese un membro «il motivo del vostro invito?»
«Sono spinto a questo» spiegò Prosit, e lo sguardo fisso gli dava un'espressione sarcastica «da una disputa che ho avuto prima di cena. Alcuni dei miei amici qui presenti avranno sentito la discussione. Possono spargere la voce. Il mio invito è fatto. Accettate?»
«Certo! Certo!», giunsero grida da ogni parte della tavola.
Il Presidente assentì e sorrise. E palesando una soddisfazione che forse gli veniva da una sua visione interiore finì il suo discorso.
Quando Herr Prosit ebbe fatto il suo stupefacente invito, la conversazione cadde sul motivo reale di quanto egli aveva detto. Alcuni erano dell'opinione che si trattasse di un altro scherzo del Presidente; altri che Prosit volesse dare una prova ulteriore delle sue capacità culinarie, il che era del tutto gratuito, poiché (dicevano questi) nessuno le aveva messe in dubbio, egli voleva forse solo soddisfare la sua vanità in quest'arte. Altri ancora erano sicuri che il motivo dell'invito fossero certi giovani di Francoforte tra i quali e il Presidente esisteva una rivalità in fatto di gastronomia. Risultò subito, come vedranno i lettori, che il motivo della sfida era effettivamente il terzo - lo scopo immediato, intendo dire, poiché essendo il Presidente un essere umano e, soprattutto, molto originale, il suo invito recava psicologicamente le tracce delle tre intenzioni che gli erano imputate.
Il motivo per cui non si credette subito che la vera ragione dell'invito di Prosit fosse la disputa (come egli stesso aveva affermato), era che la sfida era troppo vaga, troppo misteriosa per apparire come una risposta a una provocazione, come nulla più che una vendetta. Alla fine, comunque, gli si dovette credere.
La discussione menzionata dal Presidente era avvenuta tra lui e cinque giovani di Francoforte. Questi giovanotti non avevano di particolare che il fatto di essere gastronomi; penso che quello fosse l'unico titolo degno della nostra attenzione. La loro contesa era stata, per quanto si ricordi, sul fatto che un qualche piatto inventato da uno di loro, o una cena da loro offerta, fosse superiore alle imprese gastronomiche del Presidente. Su questo era sorta la disputa; attorno a questo centro il ragno della discordia aveva ingegnosamente tessuto la sua tela.
I ragazzi avevano preso parte alla discussione con una certa foga; Prosit aveva controbattuto in modo sommesso e moderato. Era sua abitudine, come ho detto, non cedere mai all'ira. In questa occasione, tuttavia, si era quasi irritato per la foga delle risposte dei suoi contendenti. Si credette, ora che si sapeva, che il Presidente avrebbe giocato uno dei suoi giganteschi tiri ai cinque ragazzi, per vendicarsi a modo suo di quella disputa. Perciò l'aspettativa presto divenne grande; cominciarono a circolare voci circa un brutto scherzo, storie su una vendetta straordinariamente originale. Dato il caso e l'uomo, queste voci si giustificavano da sole; erano goffamente costruite sulla verità. Prima o poi furono tutte riferite a Prosit; ma ascoltandole egli scuoteva la testa e mentre sembrava fare giustizia alla loro intenzione, deplorava la loro banalità. Nessuno, diceva, ha indovinato. Era impossibile che qualcuno indovinasse. Doveva essere una sorpresa. Congetture, supposizioni, ipotesi erano ridicole e inutili.
Queste dicerie, naturalmente, circolarono più tardi. Torniamo alla cena durante la quale era stato fatto l'invito. Si era appena finito. Stavamo andando verso il "fumoir" quando ci imbattemmo in cinque giovanotti dall'aspetto raffinato che salutarono Prosit piuttosto freddamente.
«Ah! amici miei», il Presidente spiegò voltandosi a noi «questi sono cinque giovani gentiluomini di Francoforte che io una volta ho battuto a un concorso di gastronomia...»
«Sapete, veramente non credo che voi ci abbiate battuti» replicò uno dei ragazzi, con un sorriso.
«Allora, lasciamo le cose come stanno o come stavano. In realtà, amici miei, la sfida che ho appena fatto alla Società di Gastronomia (con un ampio gesto della mano indicava noi) è di un'importanza molto maggiore e di natura molto più artistica.» Lo spiegò ai cinque. Essi ascoltarono il più scortesemente possibile.
«Quando ho lanciato questa sfida, proprio ora, signori, ho pensato a voi!»
«Ah! sì, davvero? E noi cosa c'entriamo?»
«Ah! lo vedrete presto! La cena è fra due settimane, il diciassette.»
«Non vogliamo sapere la data, non ne abbiamo bisogno.»
«No, avete ragione!», ridacchiò il Presidente. «Non occorre. Non sarà necessario. Tuttavia», aggiunse «sarete presenti alla cena.»
«Cosa?», gridò uno dei tre ragazzi. Degli altri due, uno fece una smorfia e l'altro sgranò gli occhi. Il Presidente sogghignò in risposta. «Sì, e vi contribuirete nella maniera più concreta.»
I cinque ragazzi manifestarono apertamente il loro dubbio e il loro scarso interesse per la questione.
«Venite, venite!», disse il Presidente mentre se ne andavano. «Quando mi propongo una cosa la faccio sul serio e io vi dico che sarete presenti alla cena e che contribuirete alla sua buona riuscita.»
Questo fu detto in un tono di così ovvia e acuta canzonatura che i giovanotti andarono su tutte le furie e si precipitarono giù per le scale.
L'ultimo si voltò.
«Forse saremo presenti con lo spirito», disse «pensando al vostro insuccesso.»
«No, no; voi sarete realmente lì. Sarete fisicamente con i vostri corpi, ve lo assicuro. Non preoccupatevi. Lasciate ogni cosa a me.»
Un quarto d'ora più tardi, quando tutto era finito, seguii Prosit giù per le scale.
«Credete che riuscirete a farli venire, Prosit?», gli chiesi mentre si metteva il cappotto.
«Certamente», disse «ne sono sicuro.»
Uscimmo insieme e ci salutammo sulla porta dell'albergo.
*
2.
Arrivò così il giorno della cena di Prosit. La cena ebbe luogo a casa di Prosit alle sei e mezzo del pomeriggio. La casa - quella che Prosit aveva indicato si trovava nella piazza - non era, in realtà, la "sua" casa, ma quella di un suo vecchio amico che viveva fuori Berlino e che la prestava a Prosit quando questi ne avesse bisogno. Era sempre a sua disposizione, anche se egli la utilizzava raramente. Alcuni dei primi festini della Società di Gastronomia si erano tenuti lì, fino a quando non ci si era accorti che per comodità, signorilità e localizzazione, l'albergo offriva maggiori vantaggi. Nell'albergo Prosit era molto conosciuto e i piatti erano eseguiti secondo le sue direttive. La sua capacità inventiva aveva tanto sfogo là quanto a casa sua, con cuochi sia suoi che degli altri membri o di qualche ristorante; e non solo la sua abilità aveva un vasto campo d'azione, ma anche l'esecuzione dei suoi piani era più rapida, migliore; essi erano eseguiti più precisamente e accuratamente.
Quanto alla casa di Prosit, nessuno sapeva dove fosse, né si preoccupava di saperlo. Per alcuni banchetti veniva usata la casa di cui ho appena parlato, per gli appuntamenti amorosi egli aveva un piccolo appartamento. Era infine iscritto a un club - forse a due - ed era spesso visto nell'hotel.
Come dicevo nessuno conosceva la casa di Prosit: che però ne avesse una, oltre ai luoghi menzionati, da lui frequentati, era un fatto certo. Non conoscevamo neppure le persone che abitavano con lui. Prosit non ci aveva mai fatto sapere chi fossero i compagni del suo ritiro; non ci aveva mai detto neppure che esistevano. Si trattava semplicemente di una nostra congettura. Prosit aveva vissuto (e questo noi lo sapevamo, anche se non mi ricordo per mezzo di chi) nelle Colonie - in Africa, o in India o in qualche altro luogo - dove aveva accumulato un patrimonio del quale ora viveva. Diciamo che, sapendone abbastanza, avevamo ritenuto ozioso indagare sul resto. Il lettore conosce ora sufficientemente il quadro della situazione da poter fare a meno di mie ulteriori informazioni circa il Presidente e la casa in questione. Veniamo dunque alla famosa cena. La stanza dove era stata imbandita la tavola per il banchetto era lunga e larga, ma non imponente. Sulle pareti non vi erano finestre, ma solo porte che davano su diverse stanze. A una estremità, dalla parte della strada, si stagliava una finestra alta e larga, splendida, che sembrava respirare tutta per sé l'aria che lasciava entrare. Suddivisa in tre parti dagli stessi scomparti del battente, occupava esattamente lo spazio di tre comuni, ampie finestre. Benché la stanza fosse grande, questa sola finestra era più che sufficiente, dava luce e aria a tutto l'insieme. Al centro della sala era stata imbandita una lunga tavola per il banchetto, a capo della quale sedeva il Presidente, di spalle alla finestra. Il sottoscritto, in qualità di membro più anziano, sedeva alla sua destra. Altri dettagli sono superflui. Eravamo cinquantadue partecipanti. La stanza era illuminata da tre lampadari che sovrastavano la tavola. Attraverso un'abile disposizione dei loro ornamenti, le luci erano singolarmente concentrate sulla tavola, in modo da lasciare piuttosto oscuri gli spazi tra questa e i muri. L'accorgimento ricordava la sistemazione delle luci sui tavoli da biliardo. Tuttavia, poiché qui tale effetto non era ottenuto come in quelli, attraverso un espediente il cui fine era ovvio, ciò che si notava era tutt'al più una sensazione di stranezza. Se ci fossero state altre tavole, l'oscurità fra l'una e l'altra sarebbe risultata alquanto molesta; ma poiché vi era una sola tavola, ciò non si notava. Io stesso lo notai solo più tardi, come il lettore potrà constatare. Sebbene anch'io, come tutti i presenti, nell'entrare mi guardassi intorno in cerca di qualcosa di strano, non notai nulla di particolare.
In quale modo la tavola fosse orientata, apparecchiata e decorata, non ricordo esattamente e ciò non mi pare essenziale. Rispetto ad altre tavole da pranzo non c'era nessuna differenza sostanziale, nessuna originalità. In tal caso qualsiasi descrizione sarebbe sterile e inutile.
I membri della Società di Gastronomia (cinquantadue, come ho detto) cominciarono ad arrivare alle sei meno un quarto. Tre, se ben ricordo, arrivarono solo un minuto prima dell'ora della cena. L'ultimo arrivò nel momento in cui ci sedevamo a tavola. In queste cose, come era proprio degli artisti, non si faceva molta cerimonia. Nessuno ebbe a ridire per il ritardo.
Ci sedemmo a tavola, in uno stato di contenuta aspettativa, di dubbio e sospetti. Questa doveva essere, ognuno di noi lo ricordava, "una cena molto originale". Tutti eravamo stati sfidati a scoprire in che cosa consistesse la sua originalità. E questo era il difficile. L'originalità stava in qualcosa di non apparente o in qualcosa di ovvio? Stava in qualche piatto, in qualche salsa o in qualche addobbo? Consisteva in qualche particolare triviale della cena? O, magari, stava nel carattere generale del banchetto?
Poiché ogni cosa era possibile, ogni cosa vagamente probabile, ogni cosa ragionevolmente improbabile, impossibile; tutto ciò forniva un motivo di sospetto, di dubbio, di disorientamento. Era lì l'originalità? Era quello lo scherzo? Cosicché non appena ci fummo tutti seduti a cenare, cominciammo a scrutare minutamente, curiosamente le decorazioni e i fiori sul tavolo e non solo questi, ma anche i disegni dei piatti, la disposizione dei coltelli e delle forchette, i bicchieri, le bottiglie di vino. Molti di noi avevano già esaminato le sedie. Non pochi, con fare indifferente, girarono intorno al tavolo, intorno alla stanza. Uno aveva guardato sotto il tavolo, un altro lo aveva tastato rapidamente e accuratamente nella parte inferiore. Un altro ancora fece cadere il tovagliolo e si piegò per raccoglierlo, cosa che fece con alquanto goffa difficoltà. Voleva vedere, mi disse poi, se non ci fosse una trappola che a un certo punto del banchetto avrebbe inghiottito il tavolo o noi e il tavolo insieme.
Non riesco a ricordare ora con precisione quali fossero le mie supposizioni o congetture. Tuttavia ricordo distintamente che erano abbastanza ridicole, dello stesso tipo di quelle che vi ho descritto parlando degli altri. Nella mia mente si susseguivano fantastici e straordinari pensieri attraverso una associazione di idee puramente meccanica. Era tutto suggestivo e insoddisfacente allo stesso tempo. Considerandole bene, tutte le cose avevano una loro singolarità (è così di ogni cosa, d'altronde); ma nulla presentava chiaramente, nitidamente un segno tale che risultasse essere la chiave del problema, la parola nascosta dell'enigma.
Il Presidente ci aveva sfidati tutti a indovinare l'originalità della cena. Data la sfida, data l'abilità di Prosit per gli scherzi, nessuno avrebbe potuto dire se l'originalità fosse ridicolmente insignificante a bella posta, se si nascondesse in una indiscrezione stravagante, oppure, dal momento che una simile cosa era possibile, consistesse nel fatto di non avere assolutamente niente di originale. Questo era lo stato d'animo col quale tutti gli ospiti - lo dico senza esagerazione - presero posto per consumare "una cena molto originale".
La nostra attenzione era concentrata su ogni cosa.
E la prima cosa da osservare fu che il servizio era composto da cinque camerieri negri. I loro visi non si potevano vedere bene, non solo per via dei costumi alquanto stravaganti che indossavano (compreso uno strano turbante), ma anche per la singolarità delle luci per cui, come nelle sale da biliardo, sebbene non con lo stesso artificio, la luce era diretta verso il tavolo e lasciava tutto il resto nell'oscurità.
I cinque camerieri negri erano ben addestrati, forse non perfettamente, ma bene. Lo rivelavano molti particolari, avvertibili da uomini come noi, a contatto quotidianamente con camerieri in occasioni importanti. Apparentemente sembravano istruiti molto bene, per una cena in cui servivano per la prima volta. Questa l'impressione che il loro servizio aveva fatto ai miei occhi esperti; ma la scartai momentaneamente, non vedendoci niente di straordinario. Non si trovavano camerieri da nessuna parte. Forse, pensai in quel momento, Prosit li ha portati dall'estero, da un suo viaggio. Il fatto che io non li conoscessi non era una ragione per non crederlo, perché, come ho detto, la vita privata di Prosit, così come la sua dimora, non ci erano conosciute: Prosit le teneva segrete per ragioni tutte sue e sulle quali non sarebbe stato delicato indagare o fare apprezzamenti. Le mie riflessioni sui camerieri negri furono semplicemente queste.
La cena era dunque cominciata. E la nostra perplessità aumentava. Le peculiarità che essa presentava erano, a ben riflettere, così insignificanti che se ne rendeva inutile qualsiasi interpretazione. Sono eloquenti in proposito le osservazioni fatte scherzosamente da uno degli ospiti verso la fine della cena: «L'unica cosa che la mia mente attenta e perspicace riesca a vedere di originale» disse con voluta pomposità un membro titolato «è, innanzi tutto, che i nostri camerieri sono scuri e che per di più si muovono nel buio, ma in realtà al buio ci siamo noi. In secondo luogo, che se tutto ciò ha un significato, il suo significato è che non significa un bel nulla. Non sento odore di tranelli: l'unico odore che sento, del resto squisito, è quello del pesce» (2).
Queste banali osservazioni furono ben accolte dai commensali, anche se non si possono definire spiritose. Tutti, comunque, avevano notato le stesse cose; ma nessuno credeva che lo scherzo di Prosit non significasse altro che questo. Guardarono il Presidente per verificare se l'espressione del suo sorriso tradisse uno stato d'animo, qualche segno di un'attitudine particolare; ma il suo sorriso era normale e inespressivo. Forse era leggermente più largo, forse aveva ammiccato quando l'ospite titolato fece quelle osservazioni, forse era diventato più malizioso; ma non potrei affermarlo con sicurezza.
«Dalle sue parole» disse infine Prosit a colui che aveva parlato «sono contento di constatare un inconsapevole riconoscimento della mia abilità nel dissimulare, nel far apparire una cosa diversa da quel che è. Vedo infatti che è stato ingannato dalle apparenze. Vedo che è ancora lontano dalla verità, dalla burla. E' ben lontano dall'indovinare in cosa consiste l'originalità della cena; e devo aggiungere che se c'è qualcosa di ingannevole, cosa che non nego, non è certamente il pesce. Tuttavia la ringrazio per il suo elogio.» E il Presidente si inchinò in modo canzonatorio.
«Il mio elogio?»
«Il suo elogio, perché lei non ha indovinato e, così facendo, ha proclamato la mia abilità. Io la ringrazio!»
Una risata mise fine a quest'episodio.
Nel frattempo io, che avevo riflettuto durante tutto questo tempo, arrivai improvvisamente a una strana conclusione: riandando con la memoria alle parole dell'invito e al giorno in cui era stato fatto, ricordai a un tratto che la cena era il risultato di una discussione del Presidente con i cinque gastronomi di Francoforte. Ricordai l'espressione di Prosit in quel momento. Egli aveva detto ai cinque giovanotti che essi sarebbero stati presenti alla cena, che vi avrebbero contribuito 'materialmente'. Aveva usato proprio questo termine.
Ora questi ragazzi non erano ospiti... Subito la vista di uno dei camerieri negri mi fece notare la loro assenza; e anche il fatto che erano cinque. La scoperta mi fece trasalire. Guardai i camerieri, per vedere se i loro visi tradissero qualcosa, ma le loro facce nere erano nell'ombra. E in quell'istante notai l'estrema abilità con cui la disposizione delle luci concentrava tutta l'illuminazione sulla tavola, lasciando parzialmente all'oscuro il resto della stanza, soprattutto all'altezza delle teste dei cinque servitori. Per quanto fosse strano e sconcertante non mi rimanevano dubbi. Ero assolutamente sicuro che i cinque gentiluomini di Francoforte fossero diventati, per l'occasione, i cinque camerieri negri. L'assoluta incredibilità della cosa mi trattenne per un attimo, ma le mie conclusioni erano molto ben tratte, erano più che logiche. Non poteva essere diversamente.
Ricordai immediatamente che, circa cinque minuti prima, nello stesso banchetto, avendo i camerieri negri naturalmente attirato l'attenzione, uno dei membri, Herr Kleist, un antropologo, aveva chiesto a Prosit di quale razza fossero (poiché gli era assolutamente impossibile vedere i loro volti), e da dove li avesse fatti venire. Il disappunto che il Presidente aveva manifestato sarebbe potuto passare del tutto inosservato; se non che io notai chiaramente, perfettamente l'imbarazzo di Prosit e ne rimasi meravigliato. Poco dopo - come ebbi a notare senza rendermene conto - mentre uno dei camerieri teneva il piatto vicino a Prosit, questi gli disse qualcosa a bassa voce; e il risultato fu che i cinque 'negri' si allontanarono nell'ombra, esagerando forse la distanza, per chi stesse attento alla manovra.
Il timore del Presidente era certamente del tutto naturale. Un antropologo come Herr Kleist, un esperto delle razze umane, dei loro tipi e delle loro caratteristiche somatiche, avrebbe inevitabilmente scoperto l'inganno se avesse visto le loro facce. Da qui l'estrema irrequietudine di Prosit alla domanda, da qui la sua richiesta che i camerieri si tenessero prudentemente nel buio. In che modo avesse eluso la domanda, non ricordo; mi pare che affermasse che i camerieri non erano i suoi, che ignorava la loro razza e il modo in cui erano giunti in Europa. Ad ogni modo nel dare questa risposta egli parve abbastanza a disagio, forse per il timore che Herr Kleist, proprio per conoscere la loro razza, chiedesse di esaminare i negri. Ma è chiaro che, avendo dichiarato che i domestici non gli appartenevano, non avrebbe potuto dire a quale razza appartenessero, poiché essendo ignorante in fatto di razze, e sapendo di esserlo, avrebbe dovuto cercare di indovinare un tipo, le cui caratteristiche più elementari ed evidenti, come per esempio la statura, avrebbero potuto essere in aperta contraddizione con quella dei cinque camerieri. Ricordo vagamente che, dopo questa risposta, Prosit deviò la conversazione con un pretesto qualsiasi, cercando di far convergere l'attenzione sulla cena o sulla gastronomia e distogliendola dai camerieri.
L'elaborato condimento dei piatti, la bizzarra novità della loro presentazione (particolari non insignificanti che, oltre alla cena speciale dipendevano dall'abilità culinaria del Presidente) mi sembrarono quisquilie, escogitate di proposito per deviare l'attenzione, tanto evidente mi parve la loro assurdità, la grettezza, l'ostentato anticonformismo. Devo aggiungere che nessuno, dopo averle esaminate, le ritenne importanti.
Il fatto in sé, in realtà, era incredibilmente, indicibilmente strano; una ragione di più, allora, dissi tra me, per avvalorare l'originalità di Prosit. Era infatti sconcertante che avesse potuto avverarsi. Come? Come avevano potuto cinque giovani assolutamente ostili al Presidente essere convinti, preparati e obbligati a rappresentare la parte dei camerieri a una cena, una cosa sgradita a ogni uomo di una certa condizione sociale? Era una cosa che aveva del grottesco, come un corpo di donna con la coda di pesce. Si aveva la sensazione che il mondo andasse alla rovescia.
Il fatto che sembrassero negri era facilmente spiegabile. Prosit non poteva certo presentare i cinque giovani ai membri della società nella loro vera apparenza. Era naturale che si avvalesse della vaga conoscenza che avevamo delle sue permanenze nelle Colonie per realizzare il suo scherzo facendoli sembrare negri. L'angosciosa domanda era come avesse fatto; e "questo" solo Prosit poteva rivelarlo. Potevo capire che qualcuno si prestasse a fare la parte del cameriere per un grande amico o per scherzo, e come un grande favore. Ma in un caso del genere!
Più riflettevo e più la cosa mi sembrava straordinaria, ma, allo stesso tempo, considerate tutte le prove che offriva, dato il carattere del Presidente, era più probabile, più certo che la burla di Prosit fosse proprio lì. Poteva ben sfidarci a trovare l'originalità del banchetto! L'originalità, così come avevo intuito, non stava propriamente nella cena, ma in qualcosa connesso con la cena: nei camerieri. Quasi mi stupii di non averlo capito prima: che il banchetto essendo offerto per i cinque giovani non poteva non avere attinenza con loro, come una vendetta, e poiché riguardava loro, è chiaro che non poteva in nessun modo essere più direttamente connesso con la cena che attraverso i camerieri.
Queste argomentazioni, questi ragionamenti che ho qui esposto in alcuni paragrafi passarono nella mia mente in pochi minuti. Io ne ero convinto, sconcertato, soddisfatto. La chiarezza razionale del caso dissipò la sua straordinaria natura dalla mia mente. Colsi chiaramente e accuratamente nel segno. Avevo vinto la sfida di Prosit.
La cena era quasi alla fine, eravamo vicini al dessert.
Decisi che la mia abilità doveva essere riconosciuta e parlai a Prosit della mia scoperta. Riconsiderai che non dovevo fare errori, manchevolezze; la stranezza del problema, così come lo concepivo, lo tramutava in certezza. Infine mi chinai verso Prosit e a bassa voce gli dissi:
«Prosit, amico mio, ho capito il trucco. Questi cinque 'negri' e i cinque ragazzi di Francoforte...»
«Ah! Lei ha indovinato che c'è una connessione tra di loro!» Lo disse tra il canzonatorio e il dubbioso, tuttavia mi accorsi che era seccato e irritato dall'acutezza del mio ragionamento, che certo non si aspettava. Sembrò a disagio e mi guardò con attenzione. Pensai di avere ragione.
«Naturalmente», replicai, «essi sono i cinque. Non ho dubbi. Ma come diamine ha fatto?»
«Forza bruta, mio caro. Ma non dica niente agli altri.»
«Certamente; ma come, con la forza bruta, mio caro Prosit?»
«Be', è un segreto che non si può svelare. E' segreto quanto la morte.»
«Ma come possono essere così rassegnati. Ne sono stupito. Non scappano né si rivoltano?»
Il Presidente fu scosso da una risata repressa. «Non c'è da temere» disse con una smorfia più che significativa. «Non possono scappare - non loro. E' assolutamente impossibile.» E mi guardò in silenzio, con fare malizioso, misterioso.
Infine eravamo alla fine della cena - no, non alla fine della cena - un'altra singolarità, apparentemente ideata ad effetto - quando Prosit propose un brindisi. Eravamo tutti attenti per questo brindisi proprio dopo l'ultimo piatto e prima del dessert. Tutti si meravigliarono, tranne me che vedevo in ciò un'altra stravaganza senza senso per stornare l'attenzione. Comunque i bicchieri erano tutti colmi. E mentre questi si riempivano, il comportamento del Presidente si alterava visibilmente. Egli si agitava nella sedia tutto eccitato, con il fervore di un uomo che voglia parlare, di qualcuno che abbia da rivelare un grande segreto, che debba fare un'importante rivelazione.
Questa condotta fu notata all'improvviso. «Prosit ha qualcosa da rivelarci - "lo" scherzo. E' Prosit, proprio lui! Avanti, Prosit, veniamo al punto!»
Mano a mano che si avvicinava il momento del brindisi, il Presidente sembrava impazzire di eccitazione; si agitava nella sedia, si contorceva, sogghignava, sorrideva, faceva smorfie, ridacchiava senza motivo e senza fine.
I bicchieri erano tutti colmi. Tutti erano pronti. Si fece un profondo silenzio. Nella tensione del momento, ricordo di aver udito due passi per strada e d'essermi irritato al suono di due voci - una di un uomo, l'altra di una donna - che conversavano nella piazza lì sotto. Non ci feci più caso. Prosit si alzò, anzi balzò in piedi, facendo quasi cadere la sedia.
«Signori», disse «vi rivelerò il mio segreto, lo scherzo, la sfida. E' molto divertente. Voi sapete che avevo detto ai cinque ragazzi di Francoforte che essi sarebbero stati presenti a questo banchetto, che vi avrebbero collaborato nel più materiale dei modi? Il segreto è tutto qui, in questo, voglio dire.» Il Presidente parlava in fretta, incoerentemente, nella foga di arrivare al punto.
«Signori questo è tutto ciò che ho da dire. Ora il primo brindisi, il grande brindisi. Esso riguarda i miei cinque poveri rivali... Perché nessuno ha indovinato la verità, neppure Meyer (si riferiva a me); neppure lui.»
Il Presidente esitò; poi, alzando la voce fino a gridare, disse: «Io bevo "alla memoria" dei cinque ragazzi di Francoforte, "che sono stati presenti fisicamente a questa cena e vi hanno contribuito nel modo più materiale possibile"». E stravolto, selvaggio, "completamente" infuriato, indicò con eccitazione "i resti di carne in un piatto" che aveva fatto in modo fossero lasciati sul tavolo.
Appena furono pronunciate queste parole, un orrore che supera ogni immaginazione cadde con strana freddezza su tutti noi. Rimanemmo sopraffatti dall'inimmaginabile rivelazione. Nell'intensità di quell'orrore, nel suo silenzio, sembrava che nessuno avesse sentito, che nessuno avesse capito. La pazzia al di là di ogni immaginazione era orribile nella sfera della realtà. Un silenzio che durò un attimo e che tuttavia sembrò, per l'emozione e per l'orrore, durare secoli, un silenzio di cui nulla di simile è mai stato sognato o pensato. Non riesco a immaginare l'espressione che avesse ciascuno di noi, che avessimo tutti noi. Ma quei visi devono aver avuto un aspetto che nessuno ha mai ancora visto.
Tutto ciò per un momento breve, logorante, profondo.
Il mio proprio orrore, la mia propria emozione sono impensabili. Tutte le bizzarre immaginazioni e le supposizioni che avevo con naturalezza e con innocenza connesso alla mia ipotesi sui cinque camerieri negri, assumevano ora il loro più profondo e orribile significato. Tutto il malizioso tono sommesso, il carattere allusivo della voce di Prosit - tutto ciò che ora mi si rivelava nella sua vera luce mi scosse e mi fece rabbrividire di una paura indicibile. L'intensità stessa del mio terrore sembrò impedirmi di svenire. Per un momento io, al pari degli altri, ma con più paura e a maggior ragione, ricaddi sulla mia sedia e fissai Prosit con un orrore che le parole non riuscirebbero ad esprimere.
Questo per un attimo, non più che per un attimo. Poi, tranne alcuni di noi, i più deboli che erano svenuti, tutti gli ospiti fuori di sé, con una furia giusta e incontrollabile, ci precipitammo selvaggiamente sul cannibale, sul folle autore di quest'impresa più che orrenda. Sarebbe stata, per un ignaro spettatore, una scena orribile vedere quegli uomini colti, ben vestiti, raffinati, animati da una furia più che bestiale. Prosit era furibondo, ma in quel momento lo eravamo anche noi. Egli non aveva alcuna possibilità contro di noi - assolutamente nessuna. Infatti in quel momento eravamo più inferociti di lui. Anche uno solo di noi, nello stato di esaltazione in cui eravamo, sarebbe bastato per punire orribilmente il Presidente.
Io stesso, primo fra tutti, colpii l'assassino con una collera così terribile da farmi sembrare quella di un altro, e mi pare tuttora così, perché il ricordo che ho di essa è quello di una percezione indistinta. Afferrai la caraffa di vino che era vicino a me e la scagliai, con un violento scatto d'ira, sul capo di Prosit. Lo colpii in pieno e sul suo viso si mescolarono sangue e vino. Io sono mite, sensibile e il sangue mi ripugna. Pensandoci ora, non riesco a capire come abbia potuto eseguire un atto che, per il mio temperamento, era tremendamente crudele, benché giusto, perché specialmente per la collera che lo ha ispirato, è stato crudele, crudelissimo. Quale sarà stata dunque la mia furia e la mia follia! E quale quella degli altri!
«Fuori dalla finestra!», gridò una voce terribile. «Fuori dalla finestra!», urlò un formidabile coro. Il tumulto degli animi era tale che il solo modo per aprire la finestra sembrò quello di fracassarla. Qualcuno vi dette una forte spallata scagliando l'asse centrale nella piazza sottostante.
Più di una dozzina di mani animalesche ghermirono avidamente Prosit la cui follia era eccitata dalla indicibile paura. Con un movimento brusco egli fu scagliato contro la finestra, ma non l'attraversò perché riuscì ad afferrarsi a uno dei battenti.
Di nuovo le mani lo ghermivano, più nervosamente, più brutalmente, più selvaggiamente ancora. E con un'erculea congiunzione di forze, con un ordine, con un accordo perfettamente diabolico, in un simile momento, facevano dondolare il Presidente nell'aria e lo spingevano con incalcolabile violenza. Con un colpo che avrebbe abbattuto i più forti, ma che rasserenava i nostri animi ansiosi e impetuosi, il Presidente cadde sulla piazza a circa un metro e mezzo di là del marciapiede. Dopo, senza una parola scambiata né un cenno, tutti chiusi nel proprio orrore, ognuno di noi uscì da quella casa. Una volta fuori, passata la collera e l'orrore che facevano sembrare il tutto un sogno, provammo l'inenarrabile terrore di imbatterci di nuovo nella normalità. Tutti senza eccezione ci sentimmo male e molti, prima o poi, svennero. Io svenni proprio sulla soglia di casa. I cinque camerieri negri di Prosit (erano davvero negri, vecchi pirati di una tribù feroce e abominevole costoro) fiutato il pericolo erano scappati durante la zuffa, ma furono presi - tutti ad eccezione di uno. Sembra che Prosit per poter effettuare il suo straordinario scherzo avesse, con un'abilità perfettamente diabolica, poco a poco, svegliato in loro gli istinti brutali assopiti dalla civiltà. Essi erano stati in ogni ... (3) i coadiutori del Presidente.
Era stato ordinato loro di rimanere il più lontano possibile dalla tavola, in zone oscure, in considerazione della paura, dettata dall'ignoranza e dalla malvagità, che Prosit aveva di Herr Kleist, l'antropologo che (per tutto quel che Prosit sapeva circa la sua scienza) avrebbe potuto vedere nelle sembianze dei negri le stimmate della patologica predisposizione alla criminalità. I quattro furono puniti a dovere.
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